Scuola, riviste e potere
di Sandro Lazier
- 19/3/2020
Siamo una democrazia. Non viviamo di comando, ma di conoscenza e partecipazione condivise.
(Angela Merkel)
Recentemente ho pubblicato, in occasione della morte di Vittorio Gregotti, un breve testo del quale ho ricevuto elogi ma anche rimproveri per la crudezza del giudizio, ritenuto inopportuno in occasione della sua morte. Ovviamente, provo per lui partecipazione e sincera compassione, cos come la provo umanamente per qualsiasi mio simile che giunga alla fine dei suoi giorni, perdipi nel bel mezzo di unepidemia. Ancora ovviamente, non credo che sarebbe un gesto leale e onesto, nutrendo per lo stesso pochissima stima professionale, celebrarne ipocritamente la fama, il potere e la gloria. Chi lo ha fatto avr sicuramente le sue buone ragioni, ma io vi assicuro che ho le mie per non farlo, e siccome sono stato sollecitato a dire i motivi della disistima recentemente dichiarata, approfitto delloccasione per mettere in luce gli aspetti fondamentali che, secondo me, hanno permesso ad un mediocre progettista di scalare i vertici della cultura architettonica non solo nazionale.
Verso la met degli anni settanta, secolo passato, frequentavo la facolt di architettura di Torino, dove al tempo regnava lautorevole figura di Roberto Gabetti, personaggio colto e raffinato, molto torinese, allievo di Mollino, del quale per aveva ereditato solo il gusto aristocratico e reazionario per il passato prossimo. Lontano anni luce dalle pericolose acrobazie del moderno, sinfil da subito nel train de vie dei salotti buoni ereditati dal suo maestro, ricordando ad un paese ancora stordito da ventanni di fascismo che, in fondo, per quanto riguardava larchitettura, non era successo un granch. Il rigurgito nostalgico e storicista di quegli anni influenz la maggior parte del corpo docente italiano e, a discesa, cal come una frana devastante sugli studenti. La didattica, austeramente controriformata dopo le follie sessantottine, da nord a sud, non si reggeva pi sugli argomenti catartici del razionalismo internazionale, che aveva liberato le case degli uomini dalla loro prigione etnica e culturale. Lo storicismo di quegli anni, ritenuto il razionalismo privo di autenticit (identit) per via della sua vocazione sovrastorica, traeva le sue conclusioni scavalcando mezzo secolo di travaglio esistenziale, come se, per salvare la faccia di quel passato che aveva procurato i disastri di due guerre e un genocidio, fosse sufficiente ignorarlo e andare a ripescare chincaglieria dal robivecchi.
Ho descritto in breve il clima di quegli anni di Torino ma, credo, lo stesso valesse per Milano, Roma, Firenze, Venezia, con dentro tutte le prime donne e le ballerine.
Gregotti fu una di queste. Allievo di Ernesto Nathan Rogers inizi quel percorso accademico e progettuale che ora gli viene riconosciuto e che proprio in quellesordio pot trovare il suo peccato originale.
Per comprendere il confine della teoria didattica di quel tempo, che praticamente il nostro autore ha praticato fino alla fine dei suoi giorni, ripropongo lo stralcio dun breve testo tratto da Casabella n. 566, del marzo 1990, che lo stesso diresse in quegli anni.
Titolo: Universit: le condizioni della futura autonomia.
Si parla di crisi della scuola.
Il primo livello lassenza di orizzonti e fondamenti comuni nellarchitettura
Il secondo livello il rapporto tra scuola e domanda sociale del mondo del lavoro.
Un terzo livello di crisi costituito dal corpo di professori, del tutto insufficiente sia qualitativamente che quantitativamente: e non solo in Italia. Solo che, mentre in molte facolt europee la piccola dimensione ed i metodi empirici permettono di costruire una preparazione di mestiere di modesti obiettivi ma sufficiente, in Italia ci diventato praticamente impossibile; per ragioni strumentali, di finanziamento, di spazi, di efficienza organizzativa, di affollamento delle facolt (che potrebbero essere suddivise per esempio secondo il modello francese in unit pedagogiche di dimensioni pi ragionevoli) ma soprattutto a causa del disorientamento inflitto agli studenti da una geografia di posizioni che pi che pluralista spesso del tutto soggettiva ed incomprensibile.
Il quarto livello di crisi quello della vocazione allarchitettura da parte degli stessi studenti. Non parlo qui di talento naturale, sappiamo bene che si impara a progettare, a disegnare, a rappresentare e a vedere come si impara a leggere ed a scrivere. Il problema la tensione verso questo particolare mestiere, che deve guardare allarchitettura come modo di accedere al mondo, di capirlo e trasformarlo; senza questa attitudine ossessiva molto difficile diventare buoni architetti. Ma dobbiamo pur dire che tale questione (quando non si identifica con il puro successo) oggi molto difficile da perseguire: infatti, mai come in questo periodo di caduta dellideologia, lideologismo della mediocrit divenuto diffusamente imperante.
Questo breve testo, da solo, ci dice pi cose:
lassenza di orizzonti e fondamenti comuni nellarchitettura
Stabilire fondamenti e orizzonti per una materia come larchitettura, che essendo anche unarte, per di pi pubblica, quindi capace di suscitare la suggestione necessaria per formare la sensibilit di chi la osserva, appare impresa non solo inutile ma controproducente. Compito dellarte, anche in quella minima parte che pu appartenere allarchitettura, non seguire le regole, o mercanteggiare quelle che meglio servirebbero, ma piuttosto inventarle. Occorrono una smisurata ambizione e una pari presunzione per pretendere che la propria verit, ancorch negoziata, possa calarsi come un dato oggettivo. Le esperienze ricche comportano una pluralit di voci, mai una sola.
...ma soprattutto a causa del disorientamento inflitto agli studenti da una geografia di posizioni che pi che pluralista spesso del tutto soggettiva ed incomprensibile.
C subito da chiedersi: la geografia di posizione di Gregotti forse l'unica giusta? forse solo lui a conoscere la ragione per cui la sua architettura non sia del tutto soggettiva e incomprensibile? Su quale legge fisica o filosofica basa le sue dichiarazioni? E chi non la pensa come lui, non ha lo stesso diritto di promuovere didatticamente le proprie convinzioni? Ma la domanda fondamentale : esistono regole per fare larchitettura o lei stessa a stabilire le sue regole?
Non parlo qui di talento naturale, sappiamo bene che si impara a progettare, a disegnare, a rappresentare e a vedere come si impara a leggere ed a scrivere.
Vero, tutti possono leggere e possono anche imparare a scrivere, ma dipende dal come si scrive. Leggere e scrivere non sono atti simmetrici. Si pu leggere qualsiasi testo, anche impegnativo e profondo; ma scriverlo proprio no. Per scrivere, a di l della lista della spesa, ci vuole talento, in architettura molto pi che in letteratura, e il talento un dono, che innato e si pu solo affinare. Nessuna societ sensata pu farne a meno tranne, per Gregotti, gli architetti. Per questo motivo la scuola, luogo deputato oltre che allapprendimento anche al confronto ed alla ricerca di idee e soluzioni, dovrebbe favorire, cercare e promuovere il talento, senza ignorarlo e abbandonarlo al suo destino personale e privato. A proposito di personale, voglio citare un'altra vicenda.
Ai tempi miei, in uno degli esami di progettazione, il prof Varaldo, Gabettiano, mi spieg che la scuola pubblica non era interessata ai talenti. Scopo della scuola pubblica era formare un livello standard di progettisti degno del proprio tempo, per poter alzare la qualit media degli edifici. Quando mi presentai allesame, con un progetto notevolmente superiore alle sue aspettative e a quelle dei miei compagni, mi redargu dicendo che, da valdostano, per salire sul Monte Rosa, non sarei dovuto partire da Gressoney, ma dal basso, come tutti gli altri. Deluso, non ripartii e lo salutai.
Cito questo fatto perch sintomatico della volont, da parte dei docenti di allora, di voler adeguare la cifra dellarchitettura alle loro teorie e non le loro teorie allarchitettura, proponendo una sorta di ribaltamento di senso che, da un lato impone ai progetti concreti di soggiacere allautorit delle teorie; dallaltro, riempiendosi il mondo di progetti frutto necessario di quelle teorie, ne giustificano lautorevolezza. Un vero circolo vizioso, nel quale tenere in mano il punto dorigine diventa molto complicato quando in gioco ci sono energie emotive, e spesso finanziarie, consistenti.
Nel mondo che ho appena raccontato, Vittorio Gregotti eccelleva.
Aveva chiaro fin dallinizio che il successo della carriera professionale di un architetto di alto rango dovesse reggersi principalmente su basi teoriche solide e riconosciute, occupando gli spazi della comunicazione e della didattica, i quali mediaticamente favorivano un ruolo di preminenza professionale. Una volta conquistati i vertici, grazie alla rete di complicit accademiche che non ha mai escluso nessuno - se non per ragioni di galateo - non gli stato difficile costruire una immensa produzione progettuale. Una produzione che, secondo me, non ha mai raggiunto i vertici delleccellenza ma che si fermata al mestiere. Mestiere di cui stato gran conoscitore e che ha posto a fondamento della sua teoria della progettazione. Ai suoi studenti insegnava un mestiere, un lavoro, coi tratti del silenzio, della cautela, del rigore: ...cercate di non essere originali, n tantomeno artisti, ...dobbiamo fare cose che appaiono come fossero sempre state, ...quando fate architettura, fate il meno rumore possibile.
Tutti consigli che lui ha ovviamente ignorato in molti suoi progetti, che sono ingombranti, pesanti e stridenti ma, effettivamente, non urlano mai. Di ridere non se ne parla nemmeno.
Le parole contenute in questi dettati professionali, apparentemente ingenue e sensate, sono per molto importanti ai fini pedagocici. Sono perfette, infatti, per istruire la servit verso il padrone. Il fatto di non fare gli strani, di non farsi notare e di stare in silenzio, credo che sia virt molto apprezzata tra gli aristocratici.
Da queste poche parole, quindi, si pu dedurre come devessere secondo lui intesa la figura dellarchitetto, ovvero come quella dun discreto e zelante servitore duna condizione data, dogmatica e indiscutibile sul piano dei presupposti, narrativamente confortante e, soprattutto, solida come il potere costituito sa e vuole essere.
E questo un problema molto serio: sul piano etico, per la semplice ragione che solo un atteggiamento acritico e neutrale pu concedere laccesso a un numero molto alto di incarichi; sul piano architettonico, perch costringe i progetti a esprimere prudenza e sottomissione a regole costruite per non cambiare nulla da chi ha interesse a che nulla venga cambiato.
Progetto e realizzazione devono avvenire senza che il linguaggio adottato susciti imbarazzo e tutto deve succedere internamente ad una retorica di regime. Un regime nel quale si deve essere ovviamente compresi, con tutto lapparato culturale di cui si pu disporre e del quale si pu rivendicare il primato.
C da chiedersi, a questo punto, se un sistema culturale debitamente drogato possa avere la possibilit di promuovere personaggi il cui rilievo non corrisponda agli effettivi meriti. Io credo di s, anche perch tutti quelli che non sono disposti a soffiare aria nei tromboni del consenso stanno sempre fuori dalla banda.
(Sandro Lazier
- 19/3/2020)
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Commento 14795 di Sandro Lazier del 20/03/2020
Per completezza, inserisco il testo del post a cui fa riferimento l'articolo all'inizio.
"Morto Vittorio Gregotti.
Un metrocubista di discreto talento capace di allevare discepoli nell'ideale della caserma, dove ha recluso le speranze ed i sogni di una generazione politecnica.
Con lui se ne va un altro pezzo di quella crosta accademica che ha negato, con la complicità di molti intellettuali, la possibilità alle giovani menti di riscattare il peggio della storia recente dell'architettura italiana, monumentale, greve e spocchiosa, malgrado le tante energie e idee apparse nel vasto panorama del dopoguerra. Idee alle quali quest'uomo, espressione più influente dell'accademismo, per esclusive ragioni di potere personale, ha sempre negato considerazione. Una condizione, questa, conservatrice e profondamente di destra, come dimostrano le sue architetture, dentro un vestito intellettuale di sinistra. Questa contraddizione è riuscita, nel suo lungo viaggio autoritario, ad aprire le porte al neofascismo moderno."
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Commento 14796 di Gerardo Manca del 20/03/2020
Posso dire? Il tuo articolo non mi convince. Vittorio Gregotti è stato ossessionato nel corso della sua vita professionale (probabilmente prigioniero) da un rigore moralistico dell'architettura, intesa come processo logico. Una visione del progetto come prassi conseguente al rigore (presunto) dell'analisi urbana (tendenza). Gregotti era un sacerdote della metodologia progettuale, spiegabile. Aldo Rossi e Giorgio Grassi hanno scritto e lavorato molto su questi concetti. Condizione diffusa (in parte accettabile) nelle scuole di architettura di allora. Dobbiamo intenderci e discutere, io credo, intorno al tema dell'architettura, ovvero dobbiamo intenderla come disciplina o "estro dell"anima"? Desidero dire che è utile distinguere la metodologia didattica dal progetto di architettura. Con te concordo sulla mediocrità progettuale (insieme a molti altri architetti più o meno noti) di Vittorio Gregotti, quasi sempre impacciato, oscuro e ripetitivo, nella configurazione dello spazio costruito. Ciò precisato ho trovato il tuo articolo eccessivamente forte, talebano (scusami l'ingeneroso accostamento). Qui non alludo al giudizio (condivisibile) spregiudicato su Gregotti, ma alle tue convinzioni granitiche in difesa (diciamo cosi) dell'international style. La liberazione "dalle prigioni dell'etnia" mi diverte molto.
Tutti i commenti di Gerardo Manca
20/3/2020 - Sandro Lazier risponde a Gerardo Manca
Tolgo la kefiah e provo a risponderti.
Io non difendo l’Internatiol Style per quello che è stato (lui sì rigoroso e conseguente ad un’analisi funzionale ben precisa), ma per i valori che ha promosso e che ha riconosciuto indifferentemente a tutta l’umanità. Qui non si tratta di adottare un pensiero unico, ma valori unici, senza i quali si finisce dritto dove siam finiti, tra le destre più becere e volgari che non vedevan l’ora che scendesse qualcuno dal piano nobile ad aprirgli le porte della stalla, perché gli ricordava nonna e le belle tradizioni. Le analisi di Gregotti e compagni milanesi non sono mirate alla funzione pratica, reale, fisica, ma sono state assurdamente rigorose su presupposti (tendenza) del tutto arbitrari, spacciandole per razionali senza avere nessuna evidenza scientifica, la cui genesi è riferibile solo alla condizione nostalgica e onanistica dei suoi autori.
Se per stile internazionale intendiamo l’aspetto degli edifici, nessuno è stato più internazionale di Gregotti, A. Rossi o Grassi, o chi vuoi dell’avventura milanese, che han fatto gli stessi scatoloni in tutto il mondo. Se lo Zen tu lo portassi in Svezia anziché a Palermo, con tutto quel che occorre nelle infrastrutture, continuerebbe ad essere un capannone alienante, in barba al silenzio, alla leggerezza, al sembrare che ci sia sempre stato. O un’infinita caserma, se vuoi.
Con questi presupposti di nessuna verità oggettiva, spacciati per argomenti dotati di qualche ontologia, se tu monti un protocollo didattico come se dovessi diffondere la bibbia, non solo peccheresti di presunzione ma deformeresti irrimediabilmente le vittime delle tue gabole esistenziali.
Commento 14799 di marco ferri del 24/03/2020
Non posso che essere non d'accordo, ma d'accordissimo con i suoi scritti, compreso quello a fondo pagina che saluta il collega Gregotti.
Da studente non l'ho mai sopportato troppo (secondo me un direttore di una rivista non può pubblicare i propri progetti, per decenza) da professionista continuavo a cercare nelle sue opere (non nei suoi scritti per lo più illeggibili) un qualche guizzo che mi facesse pensare ad un'architettura. Mi sono emozionato quando per il teatro degli arcimboldi ho visto una linea inclinata. Tanto che quando mi dissero che era di Gregotti pensai ad un errore. Pagine e pagine di libri articoli e saggi per produrre quadrati all'infinito come il peggior Ungers (che era 10 spanne sopra almeno).
La ringrazio
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