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Ci sono 26 commenti relativi a questo articolo

Commento 6922 di Luca Avino del 16/03/2009


Quindi Derrida sosterrebbe la superiorit della parola scritta sull'oralit? ma davvero? che dio abbia piet di voi!! Trovatemi un solo testo in cui Derrida interviene in difesa del logocentrismo e sar pronto a scusarmi con chiunque.

Tutti i commenti di Luca Avino

16/3/2009 - SAndro Lazier risponde a Luca Avino

Scusi Avino, sa leggere?
Nel testo scritto: "Contro il dominio "logocentrista" della metafisica tradizionale e della sua critica ermeneutica o strutturalista". Non c' scritto a favore.
Comunque, per chiarire:
"Una comprensione della nozione derridiana di diffrance - argomento di una famosa conferenza tenuta il 27 gennaio 1968 e poi compresa in "Margini" - non pu che partire dal suo statuto di "scrittura", dal modo in cui la parola stessa viene scritta, prima e piuttosto che dal suo contenuto "concettuale": la sua "concettualit" anzi tutta nella sua scritturalit. La diffrance innanzitutto quel "lavoro" silenzioso che la scrittura opera al di l di ogni possibile concettualizzazione. Il termine francese usato da Derrida volutamente scritto con la "a" anzich con la "e", come sarebbe la sua forma corretta (diffrence). Questa "violenza grafica" non ha conseguenze fonetiche percepibili, e perci intelligibili: con ci Derrida intende segnare uno scarto dal fonologocentrismo, ovvero dal privilegio del logos nel sistema concettuale dell'Occidente, di cui diretta conseguenza - o addirittura causa - l'uso della scrittura fonetica." Diego Fusaro su www.filosofico.net, Jacques Derrida.
Oppure:
"Secondo Derida, quindi, il carattere fondamentale della filosofia occidentale il logocentrismo o fonocentrismo , fondato sulla metafisica della presenza, nel senso indicato dall'ultimo Heidegger. A suo avviso nella tradizione occidentale sino a Heidegger incluso, la voce gode di un primato in virt del fatto che essa percepita e vissuta come qualcosa di presente e di immediatamente evidente: nella parola parlata sempre immanente il logos. La scrittura, invece, caratterizzata dall'assenza totale del soggetto, che l' ha prodotta: il testo scritto gode ormai di vita propria. Compito della grammatologia , dove "gramma" assunto nel senso originario greco di lettera scritta dell'alfabeto, di mirare alla comprensione del linguaggio a partire dal modello della scrittura, non del logos. La forma scritta, sottraendo il testo al suo contesto di origine e rendendolo disponibile al di l del suo tempo, ne garantisce la sua decifrabilit e leggibilit illimitata. Su questa base si rende possibile quella che Derrida chiama la " differance ", un termine da lui coniato che include i due significati del verbo differire." Antonino Magnanimo sempre sullo stesso sito web.
Sembra che il buon Dio debba rivolgere a lei le sue premure. Non crede? Intanto si scusi pure.

 

Commento 6929 di vilma torselli del 18/03/2009


Il senso dell'articolo di Lazier mi sembra largamente condiviso.
Se vogliamo, possiamo anche leggerci questa pagina:
http://www.giornalediconfine.net/n_2/art_6.htm
l dove Luisella Pisciottu scrive "La sua posizione [di Derrida] si configura come una lotta al logocentrismo, a quel privilegio che la tradizione della metafisica occidentale ha sempre accordato alla "fon", alla voce come luogo della vicinanza assoluta tra significato e significante: nella voce il corpo sensibile del significante sembra cancellarsi nel momento stesso in cui viene espresso; l'atto che anima l'intenzione immediatamente presente a s.
L'epoca della fon l'epoca dell'essere nella forma della presenza. Ci ha comportato inevitabilmente una condanna della "gramm", della scrittura come deriva e perdita del senso..."


Oppure anche l'articolo di Andrea Tagliapietra, Addio a Derrida, filosofo della differenza
(http://www.giornalediconfine.net/tagliapietra_rassegnastampa...)
l dove si legge "All'origine del linguaggio, suggerisce Derrida, non sta la voce, il risuonare della "parola detta", ma la scrittura, un'archiscrittura che ci consente di accedere all'essere non mediante lo schema della presenza - la parola sempre, almeno all'inizio, una parola pronunciata -, ma attraverso quello della differenza, della presenza-assenza che la scrittura custodisce. ...".

Con buona pace di Dio e di tutti i santi!

Vilma Torselli

Tutti i commenti di vilma torselli

18/3/2009 - Sandro Lazier risponde a vilma torselli

Grazie Vilma.
Il link al testo di Luisella Pisciottu al quale ti riferisci era già inserito in fondo all'articolo criticato da Luca Avino.
Ma, secondo me, il nostro non l'ha nemmeno visto.

 

Commento 6934 di Avino luca del 21/03/2009


Invio le mie scuse pi sentite a chi di dovere perch avevo inteso nel modo peggiore le due parti dell'intervento preso in considerazione . Ad ogni modo, signora Vilma Toselli, penso che l'autore dell'articolo sia solo un po' ingenuo, visto che la decostruzione del logocentrismo non tanto un'inversione di gerarchia tra parola "parlata" e scritta, ma l'affermazione che la scrittura opera gi al cuore della voce in forma di archiscrittura. Legga attentamente "Della Grammatologia", trover l le risposte.

Tutti i commenti di Avino luca

21/3/2009 - Sandro Lazier risponde a Avino luca

Si sbaglia Avino continuando a confondere suoni e parole sprofondando nuovamente nella metafisica.
L'archiscrittura concerne i segni e i segni non hanno nessuna voce.

 

Commento 6938 di giannino cusano del 20/03/2009


Commento di Avino (n.6922) confuso e, per fortuna, succinto: sfida a trovare in Derrida un solo testo in difesa del logocentrismo come riprova del fatto che il filosofo non avrebbe mai sostenuto la superiorit della parola scritta su quella parlata. Ma non avrebbe dovuto, Avino, ricavarne esattamente il contrario?

E poi, superiorit in cosa ? A me parso sempre chiaro, anche negli articoli apparsi su Antithesi, che per Derrida la superiorit della scrittura consiste nella possibilit che essa d di conoscere ed esperire il linguaggio in quanto tale assai meglio della parola detta, con i suoi continui inciampi nella metafisica della presenza. Tema eminentemente heideggeriano. E vasto, perch questa della presenza questione da meditare attentamente.

Va comunque colta l'occasione per confondere un po' le acque. E mi pare il caso di rammentare l'immenso e geniale lavoro di Carmelo Bene, che proprio derridiano non era ma certo col post-strutturalismo andava a braccetto 25 ore su 24. Strana circostanza, scaturisce dal paradosso di Carmelo Bene. Perch lui, con la sua macchina attoriale, fa un teatro dell'indicibile e inenarrabile, del non raccontabile, dell'accadimento, dell'attimo presente nel quale il testo conta nulla. Contano, piuttosto, le crepe, le derive, le pieghe del linguaggio nelle quali si annida la lingua non ancora occupata dal potere. Precluso ogni approdo diretto e univoco all'evento teatrale, ad esso ci si pu accostare solo zigzagando su rapidissime, brevi e labirintiche spezzate.

Gi: no al teatro di testo, si al teatro di scena. Ma questo non implica proprio la svalutazione dello scritto? Non reclama la presenza incessante dell'attore-autore-tramite di eventi? Conoscendo il suo lavoro, la risposta pu essere solo un secco: no!. E Bene non perdeva occasione per parlare di de-pensamento teatrale, per dire ho passato la vita a prendere a calci in culo me stesso, teatro togliere di scena. E infatti aveva ideato un Amleto di meno, ma tutto sommato ogni suo lavoro era un di meno, un che di "tolto a " , un sottrarre e sottrarsi alla tirannia della struttura.
Approccio deleuziano pi che derridiano, ma, a me pare, inclusivo di una forte carica decostruzionista: e non solo perch Bene citava spesso, e mai a sproposito, Derrida.
Dunque, no al testo in quanto il teatro (e fortemente artaudiano) scrittura (della crudelt: musica, parola, scene, rumore, suono concorrono senza distinzione) che si fa - mentre si fa - sotto gli occhi degli astanti: in-scrizione nel non ordine di una lingua autre, scrittura di intoppo, scrivere come inceppamento. E in una dimensione differente dall'autofarsi espressionistico, animato da immanente energia e quindi sospettabile di essere ancora tutto preso in una forma di presenza. La morte di Dio, infatti, pensabile ancora nella dimensione creazionista, mentre di un Dio immanente nessuno che lo volesse potrebbe mai liberarsi.
Bene era il teatro come eventicit, sempre presente sulla scena in quanto producibile solo per auto-elisione del testo, della trama. Questa mi pare la dimensione centrale della decostruzione anti-logocentrica. Niente Logos o demiurgica mediazione col senso vero dell'opera.
E allora, ri-de-pensando Carmelo Bene: in architettura basta o centra il problema dire che la fine della "metafisica della presenza" significa che l'essere umano non pi la prima istanza di cui preoccuparsi pensando lo spazio? La fine del logocentrismo davvero la fine di un'architettura centrata sulla presenza umana in nome di una scaturita da dati oggettivi, scritturali, legati all'ecosistema anche nl deserto e in assenza di persone? (Come) si dice in spazi questa elisione della presenza?

G.C.


Tutti i commenti di giannino cusano

 

Commento 6940 di Sandro Lazier del 21/03/2009


Rispondo a Giannino Cusano e Luca Avino.
Io credo che quando un filosofo decreta la preminenza di un evento rispetto ad un altro lo faccia dentro gli angusti, freddi e rigorosi confini di un sistema di pensiero neutro. Non c spazio per la retorica dellinterpretazione e dei significati che sono invece lanima del teatro, dove solo il coinvolgimento emotivo dei presenti a stabilire le regole della pratica teatrale.
Se c verit nella finzione di unopera di teatro e certamente c non sta di sicuro nella prassi. Tutti infatti riconoscono in questa la finzione degli accadimenti che mette in scena.
Il problema della presenza quindi strumentale alla speculazione filosofica per dimostrare lindipendenza della scrittura da qualsiasi interpretazione successiva. Infatti, qualsiasi ragionamento conserva la sua neutralit quando non inquinato dal soggetto che interpreta. Lo sa bene chi ha tentato di sollevare i filosofi dellermeneutica da quella provincia filosofica in cui serano cacciati.
Liberare le parole, quindi, non vuole solo dire liberarle dalla contingenza, ma vuol dire soprattutto liberarle dal tranello metafisico in cui lavevano costretta lo strutturalismo filosofico e le sue conseguenze.
Quando parliamo di scrittura occorre allora mettersi prima daccordo sul fatto che parliamo principalmente ed astrattamente di segni, non di testi con un senso compiuto. Purtroppo, ma questa una mia impressione personale, tutta larte contemporanea, compresa larchitettura, sembra oggi pi preoccupata di come porsi e raccontarsi (la prassi) che della maturit e novit dei segni che la esprimono. Metafore, allusioni, allegorie e tanta retorica ma poche novit di una qualche sostanza segnica. Pensare, come accaduto in questi anni, che nessuna novit fosse possibile, che fosse finito il tempo della ricerca e ci si dovesse accontentare di comporre, scomporre e ricomporre i segni del tempo teatralizzando ogni evento, non servito a capire e vivere coscientemente il nostro tempo tradendo quel ruolo, questo s storicizzato, che lumanit ha affidato allarte.
Distinguiamo quindi in modo netto verit e falsificazione. Per farlo occorre tornare dalle frasi alle parole perch, come dice Derrida, una volta scritte queste vivono da sole. Hanno in loro la forza del segno, che viene sempre e comunque prima. Sar ingenuo, caro Avino, ma cos.

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Commento 6941 di Renzo marrucci del 21/03/2009


Non per nulla igenuo... anzi!

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Commento 6948 di Vilma Torselli del 22/03/2009


Trovo assai curioso, signor Avino, che lei consigli di leggere attentamente "Della Grammatologia" proprio a me che, cosciente dei miei limiti di semplice architetto, non sono intervenuta direttamente nel dibattito e non ho espresso alcun giudizio personale, avendo invece citato pari pari due fonti senz'altro pi autorevoli di me e probabilmente anche di lei: Luisella Pisciottu, docente di filosofia, e Andrea Tagliapietra, professore ordinario di Storia della filosofia.
Consigli direttamente a loro di leggersi attentamente "Della Grammatologia", e se lo legga pure lei, attentamente, mi raccomando.
Saluti
Vilma Torselli

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Commento 6949 di giannino cusano del 22/03/2009


CHIARISCO (x Sandro Lazier)

Caro Lazier, siamo sostanzialmente d'accordo, sia pure con alcuni miei dubbi del tutto generali. La mia sulla presenza voleva essere una provocazione, spero utile, non contro la decostruzione ma contro alcuni suoi facili epigoni.
Decostruzione che in architettura non , a mio avviso, lontanamente paragonabile a un movimento come quello organico o razionalista, inclusivi di densi progetti sociali ampi, globali. Piuttosto, va commisurato ad avanguardie come De Stijl o il Costruttivismo russo in quanto pone l'accento su problematiche assai puntuali e specifiche, ma non per questo trasxcurabili.
E la riprova, secondo me, la fornisce Behnisch, l'unico architetto che credo potrebbe restare decostruttivista per i prossimi 100 anni senza fare una grinza, come Mendelsohn rimase espressionista tutta la vita di contro alla precaria durata del movimento. Behnisch pu permetterselo, a mio avviso, in quanto la sua matrice fortemente funzionale, nell'accezione pi ampia e rigorosa del termine, glielo consente senza mai venir meno, senza cedimenti di sorta. Semplificando molto, direi che Benisch sta alla decostruzione = Mendelsohn sta all'espressionismo.
Non c' dubbio che la prassi di arti come il teatro, le arti figurative e l'architettura presuppone un pubblico e delle presenze. Quello che intendevo sottolineare con un paradosso (felice o meno, ciascuno lo valuti come crede) , appunto, la differenza tra testo e scrittura.
E un esempio semplice mi pare che renda bene: se, scrivendo, recito mentalmente un testo come se lo stessi dicendo ad altri, evidente che quasi sempre ne scaturir una scrittura concepita come trascrizione di un discorso detto. Scrittura che, dunque, dissimuler il proprio carattere di scrittura dietro l'apparenza di testo raccontato. Con tutto ci che ne segue in termini di ermeneutica, perch per quanto si voglia, quel carattere di scrittura come costitutiva del segno non sar mai del tutto eludibile. Dov' la novit, allora? Tutto sommato non c', perch si tratta di una questione ben nota da tempo. Solo che -secondo me- prima appariva frammischiata ad altre, mentre con la decostruzione a me pare che venga evidenziata direi quasi chirurgicamente. Gi con Flaubert, alla met del XIX sec., si fa evidente la rottura della falsa unit del linguaggio letterario, per esempio, ideologicamente assunto come uguale per tutti, mentre solo quello dell'aristocrazia e della Corona francese che tenta di imporsi come unica e indiscussa verit. E con l'Ulisse di Joyce arriviamo, a mio avviso, al clou di un processo di rottura della falsa monoliticit della lingua, non immune dal passaggio attraverso le parolibere futuriste. Non mi soffermo sulla scrittura joyciana, che tutto meno che testo.
Torno all'architettura: ho sempre detto che la decostruzione un sintomo per me positivo, ma un sintomo. E qualche dubbio sull'operare architettonico cos come ci stato tramandato dai pionieri e dai maestri me lo insinua. Ed chiaro, concordo: non si pu cavarsela con meccaniche operazioni di smontaggio e rimontaggio degli edifici, per quanto interessanti, perch restano esteriori, applicate. Cos' il nuovo mi riesce difficile definire, perch l'architettura pu egregiamente parlare sulle proprie forme senza rifare il verso a s stessa e senza manierismi. Borromini e Gaud sono l a dimostrarlo: e certo furono nuovi, ma tutti calati uno nel linguaggio genericamente detto rinascimentale, l'altro in quel capitolo dell'Art Nouveau detto Modernismo catalano, con le sue combinatorie e contaminazioni. Delle quali gaud non si accontenta minimamente, sia chiaro.
Posto che la questione del parlante e della presenza in architettura non pu, a mio avviso, porsi in termini di esclusione dell'utente e di edifici fini a s stessi, anche vero che a mio parere c' e non solo di mera prassi operativa. Riguarda, piuttosto, 3 assenze proprie della scrittura: del parlante, del destinatario e del referente, che non sono propriamente empiriche ma riguardano, per esempio, una certa pretesa di sentenziosit del messaggio dell'architetto, che pu essere frainteso e stravolto. Scrivo un edificio che affido a destinatari che non conosco: posso continuamente preoccuparmi della sua corretta interpretazione o fermer il procedimento prima che un simile problema si ponga? E', mi pare, un'accezione in parte inedita del non-finito e tutta da sondare e inventare. E certo non pu essere fatta di segni "deboli" o manieristici, perch la scrittura costituisce il segno o scade in "testo": perfettamente d'accordo.
Ora, e non a caso, nel 1989 dopo una conferenza di Libeskind all'In/Arch , Zevi afferm che la decostruzione individua l'ottava invariante dell'architettura moderna: quella della vulnerabilit. Certo, tutti possono sbagliare e Zevi non fa eccezione. Certo, la decostruzione a mio avviso finita o degenera in moda, senza supporti pi sostanziosi. Ma a me, che decostruttivista non mi definirei nemmeno con un fucile alla tempia, d da pensare: e proprio in merito alla prassi dell'invenzione architettonica.
Spero di aver chiarito un po' meglio il mio punto di vista. O forse l'ho oscurato: fa nulla... non la fine del mondo :)

Cordialmente,
G.C.

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Commento 6961 di Vilma Torselli del 23/03/2009


Approfittando delle ampie argomentazioni fornite da Giannino Cusano, tornerei su Carmelo Bene, indubbiamente un fenomeno singolare e circoscritto della nostra cultura non solo teatrale, ma aggiungerei che andrebbe inquadrato in un discorso pi generale, ed in un certo senso pi generico, con un occhio di riguardo ai tanti fenomeni dellarte moderna che in qualche modo lo riguardano e lo contaminano, happening, performance, environmental art e persino body art, arti che accadono, plurivoche, non programmabili, interdisciplinari, comportamentali, giungendo fino dalle parti di Allan Kaprow, Mattew Barney, Dennis Oppenheim e tanti altri, senza dimenticare ci che della musica ha fatto John Cage.
E magari senza dimenticarci nemmeno di Luigi Pareyson, teorico della formativit' , che invoca per larte un fare critico, intellettualmente attivo, che si interroga lungo il suo procedere , che mentre fa inventa il suo modo di fare.
Pu essere questo ci che Cusano intende per sottrarsi alla tirannia della struttura?

Quanto al resto, Bernard Tschumi scrive: "Il corpo sempre stato sospetto in architettura: perch ha posto i propri limiti alle ambizioni architettoniche pi estreme. Disturba la purezza dell'ordine architettonico. Equivale a una pericolosa proibizione", e suggerisce una rilettura modernizzata delle categorie vitruviane venustas-firmitas-utilitas che le muti in linguaggio-materia-corpo, dove il corpo suggerisce sia laspetto utilitaristico e funzionale dellarchitettura che la sua esperienza edonistica e sensoriale.
Come dire che, per quanto si faccia, il corpo, in quanto presenza fisica umana, non pu essere escluso dal pensare, fare e fruire larchitettura, attivit eminentemente umana, fatta dalluomo per luomo, quindi doppiamente ed inevitabilmente autoreferenziale.
Impossibile quindi ogni elisione della presenza.

quando si pensa allarchitettura, si pensa ad unarte abitata, con un corpo umano che si muove al suo interno e larchitettura che si adatta ad esso scrive Bassam Lahoud, daltra parte lo stesso Derrida dice che larchitettura (cito ancora dallarticolo di Luisella Piscottu) " anche un'attivit o un impegno della gente che legge, guarda questi edifici, entra nel loro spazio, si muove nello spazio, sperimenta lo spazio in modo diverso. E cos conclude riferendo il pensiero dello stesso Derrida: Secondo Derrida, Eisenman e Tschumi hanno dato prova che quella decostruttivista una strada percorribile; anche le loro creazioni sono fatte per essere abitate, per dare riparo, tuttavia, dietro consiglio di Derrida, quello che bisogna chiedersi "non soltanto ci che costruiscono, ma come noi interpretiamo ci che essi costruiscono".
Luomo, sempre luomo, artefice e fruitore, onnipresente ed ineliminabile.
Impossibile quindi ogni esclusione dellutente.

Tuttavia sul fatto che ci possa essere un parallelo stretto tra critica del logocentrismo e decostruttivismo (del linguaggio architettonico) resta sempre qualche dubbio, condiviso forse dallo stesso Derrida.
Il quale, invitato nel 1986, con Eisenman, proprio da Bernard Tschumi a collaborare alla stesura di un progetto di giardino nella "promenade cinmatique" a Parigi, progetto poi rifiutato dalla committenza e mai realizzato, scrive un libro, si direbbe senza eccessiva convinzione, Adesso larchitettura, addentrandosi in un campo di speculazione nuovo con una certa cautela, se a pag.198 scrive: Io non so molto bene che cos un parco. Che cos un parco? Una citt? Queste non sono questioni filosofiche astratte. Parlare di un parco urbano ancora pi problematico. Chiederei di rivedere tutto.

Alimentando il sospetto che i supporti teorico-filosofici del decostruttivismo siano veramente poco sostanziosi.

Saluti
Vilma Torselli


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Commento 6963 di giannino cusano del 23/03/2009


Ottimo e sostanzioso intervento di Vilma Torselli, che ringrazio.
Si, penso che l'assenza del "parlante" abbia attinenza anche col "farsi" dell'esperienza sotto i nostri occhi e in modo non predeterminato. Trovo interessanti, per esempio, certi spazi di Koolhaas, in cui non distingue tra percorsi e luoghi di arrivo e nei quali le strutture non seguono alcuna maglia regolare, in modo che ciascuno, muovendosi, possa farne un'esperienza personalissima tracciando volta a volta i suoi personali percorsi "nomadi" -anche interiori - dipendenti solo da ci che sul momento attrae ciascuno di noi. Magari la prossima volta sar tutto molto differente.
Pi in generale, credo che l'esperienza piena di libere "derive" nello spazio, del lasciarsi andare ala sua magia, sia possibile a partire da una frattura fondamentale col senso univoco dell'opera, da cui nasce un tipo di abbandono attivo all'esperienza.
Sono ovviamente incentivi, suggerimenti a immaginare che ho ricavato. Anche leggendo Derrida, o guardando certo teatro e non altro. Non sono, ovviamente, un filosofo o un critico, quindi ho un vantaggio notevole sui pensatori di professione, perch tutto quello che aiuta la mia immaginazione a me va bene.
Penso anch'io che la decostruzione non sia un supporto sufficiente per "costruire" di per s, dalle fondamenta e di sana pianta un'architettura.
Come la rottura della scatola neoplasticista pu essere un incentivo enorme a immaginare in modo "altro" dal solito, anche la decostruziione secondo me pu esserlo. In modo forse meno diretto, architettonicamente, pi complesso e anche molto mentale, ma stimolante.
Gli esempi pi validi, a mio giudizio, sono quelli di chi, a suo modo, ha assorbito tensioni decostruttiviste in ambiti operativi del tutto differenti, come arricchimento espressivo. Ho citato il generosissimo Behnisch e il suo approccio fondamentalmente "funzionalista", potrei citare Biagio Marcello Guido: un organico, senza ombra di dubbio, che per con la decostruzione ha aggiunto attrezzi assai interessanti alla sua gi nutrita cassetta dei ferri.
Almeno, io cos vedo la questione. Apertissima, ovviamente, a mille altre soluzioni :)

G.C.

Tutti i commenti di giannino cusano

 

Commento 6965 di Sandro Lazier del 23/03/2009


A questo punto dobbiamo ringraziare Luca Avino per averci dato modo di riaprire una riflessione su un argomento che a nessuno sarebbe venuto in mente in questo momento di rilassamento mentale pressoch generale.
Dico a Giannino Cusano che ho molto apprezzato il suo riferimento a Carmelo Bene, perch mi ha acceso un paio di lampadine sulle quali sto ancora meditando. Il mio intervento non intendeva essere sfavorevolmente critico. Intendeva solamente chiarire a me in primo luogo e poi ai lettori- lambito della riflessione filosofica e la sua possibile influenza sulle questioni dellarchitettura. Al solo scopo di evitare confusione, visto che ce n gi tanta.
Vilma Torselli ha magistralmente essendo unesperta di arte moderna particolarmente attenta e capace risolto il problema della presenza lasciandoci per senza una soluzione decisiva. Capisco i suoi dubbi e le sue disillusioni (vedi larticolo Remix su www.artonweb.it) che affidano allarte lunica possibilit di redenzione Ri-editando linguaggi estetici e teorici di diversa provenienza, [larte] perviene cos ad una interpretazione anzich ad una produzione di nuove forme, elaborando protocolli alternativi per rappresentazioni e strutture narrative gi esistenti (Stefano Chiodi, Alias n.31 / 08-2005).
A me pare tuttavia che la rinuncia al nuovo, al grado zero, alla scrittura ex novo non possa essere la strada migliore per interpretare e dare risposte attuali. Il postmoderno ha sostanzialmente fallito lasciandoci in eredit un conservatorismo nemmeno nostalgico e decadente, ma addirittura convinto di occupare posizioni davanguardia. Avanguardia dei gamberi, direbbe Zevi.
Ma dove sta la novit della scrittura? Dove cercarla? Ricordo il mio primo viaggio a Siena, a piazza del Campo. Lesperienza dello spazio che se ne fa unica e ci fa capire quanto questo sia essenziale allarchitettura e non ne sia accessorio. Ruotando lo sguardo dal centro della piazza, non c fabbrica di un qualche rilievo architettonico alla faccia di Aldo Rossi e dellarchitettura della citt non ci sono materiali pregiati n tantomeno composizioni armoniche e simmetrie. Possiamo mentalmente sostituire gli edifici, scambiarli, inserirne di nuovi, ma il risultato resta di per s lo stesso. C un catino, una torre ed edifici intorno. Tornando a casa racconteremo di un posto meraviglioso ma non sapremo descriverne larchitettura.
Non questa astrazione? Centra luomo in tutto questo? E quale uomo? Quello solenne e dritto della prospettiva centrale rinascimentale? O quello contrito e genuflesso dei borghi medievali?
Questo intendo quando parlo di novit della scrittura. Essa possibile.

Tutti i commenti di Sandro Lazier

 

Commento 6966 di giannino cusano del 24/03/2009


PER AVINO, LAZIER, TORSELLI

Mi unisco a Lazier nel ringraziare Avino per aver scatenato questo meraviglioso putiferio :)

Lazier scrive (n. 6965) Dico a Giannino Cusano che ho molto apprezzato il suo riferimento a Carmelo Bene ... Il mio intervento non intendeva essere sfavorevolmente critico... ecc. ecc. Grazie: non importante, credo, se il tuo intervento volesse o meno essere critico. E' importante che induca, come ha fatto, approfondimento e riflessione.

Occorre, invece, tornare pi puntualmente sul commento 6961 di Vilma Torselli.
Non metto in dubbio la correttezza filologica dei riferimenti di cui si serve per commentare il lavoro di Carmelo Bene. Solo, per, che se ci si limita a smontare una personalit creativa nelle sue componenti base, ci resta il vuoto e non si distingue pi Bene dalle sue eventuali componenti, peraltro tutte da provare.
Posso ben leggere Borromini come uno che smonta e riassembla ordini giganti, riseghe da cupole del Pantheon, cornici ondulate, ecc., ma con questo non avr chiarito n la peculiarit delle sue invenzioni n la differenza, se c', per grado e qualit di Borromini dai suoi meri ingredienti costitutivi.
L'eventicit di Bene affatto diversa dall'happening, dalla performance, dalla body art e dallo stesso Cage, che peraltro amo molto. E sopra ogni altra cosa tutto fuorch non programmabile, perch Carmelo Bene progettava meticolosamente e nei minimi dettagli i suoi spettacoli. E fu accusato persino di essere ripetitivo, da serata a serata: come se la ripetizione fosse un delitto e non, invece, la vera trasgressione.
Perch solo una cosa che non pu essere detta altrimenti, deve solo essere ripetuta.
Spettacoli, cmq, che erano la sistematica e pi radicale sottrazione alla tirannia della struttura che io abbia avuto modo di conoscere. E il punto non mi pare nemmeno di 'interdisciplinariet: semplicemente, la convergenza di tutti i fattori nel farsi della scena una brillante reinvenzione del teatro della crudelt di Artaud, che mi pare altra faccenda.

Ho gi detto mesi fa, qui in Antithesi, che la presenza in architettura a rigore ineliminabile e l'ho ripetuto di recente, aggiungendovi tutte le arti figurative e teatrali. Dunque, quando la Torselli scrive Luomo, sempre luomo, artefice e fruitore, onnipresente ed ineliminabile.Impossibile quindi ogni esclusione dellutente mi pare si rivolga a terzi, non a me.
E' un'ovviet, dire che ogni esclusione dell'utente impossibile. E chi ha mai detto il contrario? Ed un'altra ovviet dire che, per quanto si faccia, il corpo, in quanto presenza fisica umana, non pu essere escluso dal pensare, fare e fruire larchitettura, attivit eminentemente umana, fatta dalluomo per luomo, quindi doppiamente ed inevitabilmente autoreferenziale. Impossibile quindi ogni elisione della presenza

Certo: anche qui, ho mai sostenuto il contrario? E dove? Se si pensa di confutare la decostruzione cos, credo che non si va molto lontano.

Pu darsi che forse Derrida non fosse troppo convinto della validit della decostruzione in architettura, pu ben darsi che i tanti sospetti che la Torselli dissemina (non derridianamente) nel suo commento siano fondati, ma fino a prova contraria restano dei forse e dei sospetti che , per ora, a mio parere non assurgono a rango non di prove, ma nemmeno di indizi. Impressioni rispettabilissime, per carit, ma impressioni. E poi, chissenefrega di Derrida, se non era convinto! Mica sono un suo esegeta: di Derrida faccio quello che mi pare creativamente giusto fare, non ci che la filologia mi comanda di fare.

Allora riepiloghiamo: ho sempre detto, e lo ripeto, che a mio parere la decostruzione non una semplice operazione di smontaggio e rimontaggio di testi. Se cos fosse, non ci sarebbe stato bisogno di incomodare tanto lavorio quanto ne ha smosso lo stesso Derrida. Qualsiasi autore di parodie smonta a rimonta testi senza bisogno di essere pensatore o filosofo.

La questione del logocentrismo riguarda, dal mio punto di vista, il fatto che la scrittura si stacca dal parlante e vive di vita propria, sottraendosi al dominio e al controllo del parlante, anzitutto. Si costituisce cos in segno. E questo, mutatis mutandis, vale in letteratura, in architettura e nelle arti tutte. Ne La disseminazione (Derrida) c' una lunghissima sezione -la farmacia di Platone- dedicata al Fedro che chiarisce molto bene la questione. Anche un messaggio scritto presuppone che qualcuno lo legga e, mentre viene letto, che qualcuno lo abbia scritto. La differenza rispetto al logos detto e parlato sta nel fatto che destinatario e parlante non sono presenti: chi ha scritto il messaggio poteva voler dire tutt'altro, pu essere un mentitore o essere morto nel momento in cui io leggo e magari il messaggio una richiesta di soccorso di un naufrago da un'isola deserta. Questa differenza sostanziale, perch il messaggio trasmesso da puri segni. Per meglio dire, segni di segni, che sono la scrittura. Ecco la questione della presenza, o meglio dell'assenza molto ben esemplificata dall'esempio di piazza del Campo a Siena fatto da Lazier. Ed ecco anche la questione del testo, che pur servendosene non scrittura. Ed ecco la questione del teatro di Carmelo Bene: teatro di scrittura ma non di testo; non dicibile, non raccontabile in quanto non riconducibile alla parola. E architettura, anzitutto. Bene stato un grande architetto.

Ora i testi, in Bene, non cercano alcun senso e non contano assolutamente nulla. Conta, pi di cosa dicono, come lo dicono. E' il cuore della psicananalisi di Lacan, questo: e Carmelo Bene lo sapeva benissimo. Non conta impersonare un personaggio, tradurlo in presenza, interpretarlo: questa, per Bene, solo retorica, non teatro. L'Amleto o il Riccardo III sono riconoscibilmente quelli di Shakespeare, ma al contempo risultano spiazza(n)ti, disturba(n)ti: risultano altro dai testi di Shakespeare perch evidenziano la loro marca come un vuoto, che la sostanza della questione. E' un lavoro critico e creativo insieme, persino filologicamente pi meticoloso di quanto avrebbe potuto pensare Lawrence Olivier, Vittorio Gassmann o Giorgio Albertazzi. Produce un forte spiazzamento per cui non rende presente Shakespeare pi di quanto non ne presentifichi sistematicamente l'assenza, com' tipico della scrittura. E questo mi pare un tratto originalissimo, che nessuna filologia dello smontaggio e rimontaggio vale a chiarire. O si riguardi la Salom, per esempio, per capire ancora una volta l'abissale differenza da qualsiasi recitazione del testo teatrale.

A meno di ricadere nel paradosso della struttura, che postula almeno due serie: una significante, una significata. Solo che la prima tutta data preliminarmente e sempre in esubero rispetto alla seconda, che dalla prima viene preordinata, mentre alla seconda si pu solo accedere coi tempi lenti della conoscenza empirica, dell'esperienza materiale. Le due serie saranno sempre asintotiche, incongruenti, fluttuanti sul vuoto di un inadeguamento. E il senso sar sempre fluttuato, marcato da un vuoto, da un mana. Quale architettura del contesto si pu ancora teorizzare di costruire, che non sia finzione e menzogna? E quale contesto? E' questa, mi pare, la peculiarit del post-strutturalismo e della decostruzione traslati in architettura. O meglio: delle ricerche che ne sono scaturite anche in campo artistico e architettonico. Non sempre felici, ne convengo.

Allora: la parola (presenza) non segno. Se c' ontologia del linguaggio, muore il linguaggio. E non c' semiotica: la poesia, la scrittura creatrice, la sola scienza del linguaggio. Qualsiasi indagine sulla struttura pu mettere in luce non la struttura, ma la sua assenza. Questo liberarsi dalla tirannia della struttura: smettere di far finta di credere che esista qualcosa che si chiama struttura. O che si chiama contesto, come ha ben chiarito Lazier. E questo liberarsi dall'illusione strutturale attiene proprio al grado zero, come ricorda ancora Lazier, cui si accede solo togliendo (alla Carmelo Bene) incrostazioni testuali, strutturali, ideologiche e che resta a mio avviso anch'esso asintotico, ma proprio perci il solo volano di tensione creativa.

Cordialmente,
G.C.

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Commento 6967 di Renzo marrucci del 24/03/2009


Per quanto riguarda lo spazio di piazza del Campo a Siena, dico volentieri la mia opinione alla luce dell' integrazione architettura citt e territorio.
Lazier, forse, semplifica un po' troppo. Lo spazio di piazza del campo vive della sua architettura per come stata pensata e costruita e con il materiale che si vede nelle facciate, che poi facciate non sono ma oganici riferimenti alla citt, che nello spazio della piazza si rappresenta.
Materiale e colore e scuri profondi come continum materico-spaziale e funzionale che si estende alla citt. Consistente spazio temporalit scandita nel ritmo organico del territorio che produce spazio organico umano, in un felice rapporto integrato alla forma cavea del terreno, in cui la citt si incontra con i suoi tre crinali, in un realt rispettata, amata e assecondata dal genio locale. Esempio di continuit e di profondit umana che F.L.W. ammirando, riport nella felicit del suo cuore di architetto.
Quale spazio pi caratterizzato di quello? Spazio urbatettonico in tuti i sensi. Da studiare e da capire alla luce della realt odierna. Quando si vuole capire il tipo di perversione o sbandamento che stiamo attraversando sufficiente andare a prendere un th o un bicchiere di vino in quella realt spaziale... in cui tutto architettura... e gli edifici sono una sola cosa, un contrappunto di pieni e di vuoti come individuo spaziale che fondendosi, accarezza il cuore e l'anima di chi vuole farsi rigenerare.
Si pu osservare ammirati come una cartolina, piazza del campo, e cercarne gli elementi che la connotano, uno per uno e allora si scopre cosa vuol dire integrazione spazio temporale e citt territorio, e se si vuole si pu anche non decifrare la cifra o il valore architettonico peculiare degli elementi che lo compongono, non cambia nulla. E' una risposta come altre, da studiare nella sua magia instancabile e eterna per capire anche, per esempio che cosa un luogo umano e urbano e che cosa l'architettura che non deve distinguersi, ma fondersi in un comune linguaggio che pare quello della modestia ma appare invece, per magia umana esplodente, un luogo della pienezza e della forza organica della spiritualit umana.

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Commento 6968 di Vilma Torselli del 24/03/2009


Si tranquillizzi, Cusano, mi sono solo accodata allargomento che lei ha portato avanti con ampie argomentazioni, non volevo rispondere in particolare a lei (ci sarebbe voluto ben altro impegno), non volevo tacciarla di essere lesegeta di Derrida (come le venuto in mente?), non volevo scalfire la sua granitica (super)valutazione di Carmelo Bene (ma non le sembra un argomento un po off topic per insisterci tanto?), sul quale vorr essere cos equanime da lasciare intatte le mie personali convinzioni, non intendevo confutare due sue espressioni (..(Come) si dice in spazi questa elisione della presenza? - comm.6938) e ( porsi in termini di esclusione dell'utente - comm 6949) ma semmai rafforzarle.

Vorrei, questo s, consigliarle una lettura meno scolastica dellarte moderna e poi, visto che la parola forse la inquieta, aggiugerei una breve meditazione su una frase pescata in rete che mi piace molto: "Se un uomo parte da certezze, terminer con dubbi; ma se si contenta di cominciare con dubbi, terminer con certezze." (Francis Bacon)

Ancora saluti
Vilma Torselli

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Commento 6972 di giannino cusano del 25/03/2009


X Vilma Torselli

Sono tranquillissimo, grazie. Anche per carattere. E anche, dicono, persona di spirito e spiccato sense of humour: cosa che, naturalmente, a volte passando da parlato a scritto pu anche non trapelare.

Non ho idiosincrasie per la parola "forse". Su particolari argomenti e figure che tuttora mi appassionano particolarmente, forse con i dubbi ho iniziato tanti anni fa. Lei che ne dice? Su questo mi conceder il beneficio del dubbio?
dicevo: dubbi ritestati e reiterati fino al punto da portarmi a pochissime e pure conclusioni. Personali, ovvio. Capita anche questo, per via. Per cambiare le quali, occorre convincermi: a volte succede, altre no.

E comunque una cosa certa: non mi ben chiaro il suo punto di vista sulla decostruzione. Forse non ho ben compreso il suo commento (6961), forse per una volta lei non si spiegata nel modo migliore. Che ne dice? Un fifty / fifty potrebbe andar bene?

A ogni buon conto, se vortr essere cos cortese, un supplemento d'informazione da parte sua mi sembra auspicabile.

Cordialmente,
G.C.

PS: ha visto quanti "forse"?

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Commento 6975 di Vilma Torselli del 26/03/2009


X Giannino Cusano

PS: s, ho visto, e me ne compiaccio.

Buona giornata
Vilma Torselli

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Commento 6980 di Matteo seraceni del 26/03/2009


Scrivo questo mio appunto non per entrare nella spirale senza fine di polemiche innescate dall'articolo, ma per esprimere la mia vicinanza al pensiero di Vilma Torselli (in particolare il commento 6961:io l'ho capito benissimo, con buona pace di Cusano).
Mi ha stupito il fatto che anch'io, il 13 marzo, in un piccolo articolo sul mio modesto blog (http://arching.wordpress.com/2009/03/13/il-sonno-della-ragione-genera-mostri/), mi stavo interrogando sul ruolo che ha il "corpo" oggi in architettura.
Penso quindi non soltanto che "il corpo, in quanto presenza fisica umana, non pu essere escluso dal pensare" come afferma Tschumi, ma cercare di eliderne la presenza non fa altro che "comprimere" tutto quello che "viene messo da parte" e che prima o poi sar pronto a riesplodere.
Concordo anche con Cusano quando afferma che "non si pu cavarsela con meccaniche operazioni di smontaggio e rimontaggio degli edifici, per quanto interessanti, perch restano esteriori, applicate": se ogni aspetto fortemente connotato all'interno del linguaggio architettonico si rischia di perdere di vista le funzioni primarie di un organismo architettonico.
In ogni modo, tanto di cappello ad un pensatore che come pochi ha saputo "infiammare" il dibattito culturale in epoca contemporanea.
A presto.
Matteo Seraceni

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Commento 6981 di giannino cusano del 26/03/2009


X Matteo Seraceni
Buon per lei che ha capito benissimo il commento della Torselli (6961). Io - e con mia buona pace ugualmente- non ho compreso i richiami al corpo fatti dalla Torselli, o almeno la loro necessit nell'economia del discorso, per la semplice ragione che ho sempre sostenuto l'ineliminabilit dell'esperienza "fisica" dello spazio.

Per mia didascalica comodit, peraltro, ho sempre distinto gli architetti in "corporei" e "concettuali", pur senza confini nettissimi, all'atto pratico. Ma non importante e non mi dilungher su questo.

Sulla presenza ho sempre detto, e lo ripeto ora, che in quanto esperienza dello spazio ineliminabile anch'essa, ma quando la decostruzione ci parla di elisione della presenza siamo certi che questo che intende? O, almeno, che pur intendendo questo, in realt non prenda un abbaglio e non additi invece, volutamente o no, un problema meno superficiale? Io non sono affatto sicuro che intenda questo. E, anzi, direi che sono ormai certo del contrario: per mie deduzioni, sia chiaro. Fallaci, ovviamente, fino a prova contraria. Le cose sono anche quel che ci leggiamo dentro.

E' che bisogna intendersi: se ci si riferisce all'architettura come metafora del corpo, il suo articolo (http://arching.wordpress.com/2009/03/13/il-sonno-della-ragione-genera-mostri/) pu anche trovarmi a grandi linee d'accordo, salvo alcuni passaggi peraltro non central.

Ma converr che l'esperienza spaziale non metafora del corpo n ad essa pu ridursi. E' un ineludibile "essere l": entrare, attraversare, percorrere, uscire, guardare, udire, annusare, piegarsi, salire, a volte comodamente a volte no, ora con passo regolare e cadenzato, ora senza ritmo o metro predefinito, come in tante irregolari rampe gradonate o scalinate medievali. Nulla che possa esaurirsi nei termini metaforici dell'Einfuhlung. Alla quale teoria, peraltro, non utile rinunciare, purch se ne colgano confini e limiti. Pu, anzi, essere un utile strumento di lettura a patto che il sostantivo resti lo spazio vissuto di persona, non in fotografia o in immagine. E il rischio, in questa apoteosi dell'immagine patinata, che anche la critica finisca per esercitarsi allo stesso modo, sia pure per stroncare. E su questo punto dell'esperienza spaziale lei, nell'articolo sul suo blog, avverte molto chiaramente i suoi lettori.
In immagine, infatti, non possiamo far altro che leggere un edificio come un quadro o la traccia di un'intenzione programmatica realizzata. Nulla di male, ma finch non lo visitiamo l'essenza di un edificio ci sfuggir sempre. Nulla di male, ma la spazialit pittorica altra cosa dallo spazio architettonico. E nulla di male se poi la pura visibilit gi stata ampiamente e magistralmente collaudata, in architettura, da un maestro come Giulio Carlo Argan. Letture non del tutto convincenti, a mio parere, le sue, ma spesso illuminanti, se colte nei loro limiti puro-visibilisti.

Metafore di lamiere attorte, di corpi senza pelle, di separazioni esterno-interno violentate e squassate? Certo: una chiave di lettura possibile. E condivisibile, in parte, perch alcuni sentono di vivere in un'epoca di questo genere. Forse un tentativo di liberarsi da un Super-Io troppo esigente, ma di questa lettura in chiave francofortese-adorniana non sarei tanto sicuro. Il punto su cui vorrei attirare l0'attenzione : quelle lamiere attorte, quei pavimenti che si fanno pareti e di qui soffitti, che aprono visuali insospettate, hanno o possono avere valenze spaziali? E quando? O sono solo e sempre metafore della condizione di alienazione contemporanea, cui si tenta di sfuggire bevendo la bottiglia d'un fiato e fino in fondo?

Insomma: cercherei di non cadere nella trappola della lettura dell' operazione progettuale prima di sperimentare di presenza gli spazi di un edificio. Ho visitato attentamente Gaud, vari anni fa; il Guggenheim di Bilbao, pi di recente e, ancor pi recentemente ville Savoye e i brani urbani di Renaudie a Ivry: le esperienze di quegli spazi-segni possono solo essere inalate di persona. E il pi delle volte sono sorprendentemente spiazzanti rispetto a qualsiasi discorso su di essi e sulle loro recensioni e immagini stampate. Com' giusto che sia.

Allora: forse quella del crollo un'immagine ricorrente, al giorno d'oggi. Crollo e dis-facimento del corpo, o crollo imminente dell'edificio in bilico perch siamo in un'epoca decadente o percepita come tale da alcuni di noi. Ci non toglie che, al pari della cosiddetta sala dei paradossi statici di villa Adriana a Tivoli o di San Carlino, della cripta di Santa Coloma de cervell o di Ronchamp, anche tuffarsi nella crisi senza farsi illusioni pu produrre autentici capolavori o schifezze, secondo i casi.

Forse alcuni approcci sono nichilistici, e ben venga una loro critica ideologica o in nome di valori che personalmente riteniamo lesi o in pericolo. Ma va tenuto presente che anche il nichilismo presuppone un progetto esistenziale e la fatica etica di perseguirlo e attuarlo giorno dopo giorno, senza infingimenti: la pura e semplice fatica di esistere registandone il pulsare quotidiano e martellante senza ideologismi e senza canoni moraleggianti.

La vita un non-senso, a meno di addentarla e amarla follemente. Il che con la ragione e col suo disincanto temo non abbia molto da spartire.

Cordialmente e sinceri complimenti per il suo blog e per l'articolo segnalato qui,

G.C.

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Commento 6984 di Matteo seraceni del 27/03/2009


Convengo con lei che l'esperienza spaziale non pu ridursi a semplice metafora del corpo, ed infatti col mio articolo volevo solamente aprire nuove prospettive di dialogo in una critica architettonica che si nutre oramai di stereotipi e slogan.
Noto con piacere che ha colto i riferimenti al concetto di Einfuhlung e concordo col fatto che occorre(rebbe) in architettura riferirsi principalmente al vissuto personale (mentre ad esempio, per altre arti, come il cinema o il teatro, questo aspetto marginale, poich la mediazione dell'apparato filmico o teatrale coinvolge comunque aspetti non intenzionali che rispecchiano le modalit con cui cerchiamo di comprendere gli altri).
In ogni modo non andrebbe sottovalutata la forza di un tale strumento operativo che, come afferma Husserl, costituisce la condizione di possibilit della comprensione dell'altro, del mondo e di noi stessi.
Ribadisco inoltre che non era mia intenzione ridurre la produzione architettonica a semplice metafora dell'alienazione contemporanea (anzi, penso a questa metafora come aspetto non voluto dall'architetto, che probabilmente spesso si ferma a pure speculazioni estetiche; ma questo non riguarda solo l'architettura: quante volte in pittura si possono ritrovare i caratteri del tempo in cui nata un'opera senza che l'artista ne fosse coscientemente partecipe?).
Anch'o ho visitato attentamente Gaudi ed il Guggenheim di Bilbao e concordo col fatto che nessuna immagine progettuale pu sostituirsi a tale esperienza: in particolare mi sono accorto di come Casa Batl non sia un'opera di frivolezza estetizzante, ma sia generata dallo spazio interiore che si proietta all'esterno. Mi spiego: mentre la maggioranza degli architetti ancora pensa alle stanze di una casa come "scatole" al cui interno posizionare mobili e persone, Gaudi ribalta completamente la prospettiva e crea spazi "attorno" alle persone; non la "vita" ad essere rinchiusa dentro una scatola, ma la "vita" stessa a conformare l'edificio architettonico.
Quindi ovvio che le "lamiere deformate" hanno valenza spaziale, ma - a meno di non ritenere l'intera costruzione frutto del caso - occorre riferire questa valenza a ci che viene vissuto al di sotto di esse.
La ringrazio sentitamente e spero che la critica di queste pagine non rimanga un'isola per pochi.
A presto
Matteo Seraceni

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Commento 6987 di renzo marrucci del 27/03/2009


Riflessioni a perdere
Morire a settantaquattro anni non poi troppo male. Ci metterei la firma e parlo per me naturalmente! Viva chi va oltre e con la mia benedizione.
Caro Giannino sei forte! Per le categorie con cui dividi gli architetti bisogner ritoccarle di almeno una cinquantina di posizioni... perch tra corporei e concettuali non ci sono differenze o sono cos minime... Si tratter di perdere aria da punti diversi ma sempre aria perduta ci sar... Aria con sonoro pi o meno articolato ma pur sempre aria...e non c' bisogno di fraintendersi tutto cos organico e naturale. Le archisuperstar o le stararchitet o gli architetti da seduta televisiva o da rotocalco spettacolar-popolare ( si pu cambiare le parole che, come vedete, non calza un tipo quanto una moda) piacciono a chi ha da spendere il denaro degli altri e a colpire l'immaginazione di chi immaginazione non ha... e come dice J. Silber : un po di meno a chi spende il suo e a chi capisce e ci va con i piedi per terra... Quindi finch il denaro pubblico foraggia, amici carissimi, c' e ci sar decostruzione o la dematerializzazione o la cementificazione o la mineralizzazione ecc... e la voglia di andare al kilometroalato (grattacieli)... vedete un p come vi viene la parola. Quando si spendono i soldi con attenzione si bada al sodo, cio si cerca quello che effettivamente ci vuole ed necessario e questo non implica che il prodotto debba essere modesto o non essere un vero capo d'opera. I mezzi contati e la responsabilit sono ancora una realt su cui si misuran le cose. Chi ha posizione far sempre la festa, ci sar ancora ma chi vivr vedr, come si suol dire... La ricerca cosa seria e umana, sa pensare all'uomo e non alle cose che si vogliono fare per mutato senso della responsabilit o per il rincoglionimento di alcuni... Io considero l'artista sempre fondamentale alla nostra societ e la sua libert ci permette di viverne il senso... ma proprio per questo utile e ha senso nella societ... lo vogliono emarginare e svuoltarlo di senso? Ci stanno riuscendo benissimo! Trasferitelo sempre laddove l'uomo deve vivere e sviluppare la sua disponibilit organizzata alla vita e allora sar cosa che non . In questo mondo tutto ci che passa nella realt deve o dovrebbe essere criticamente mediato
Renzo Marrucci

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Commento 6988 di giannino cusano del 28/03/2009


X Matteo Seraceni
Sono d'accordo su tutta la linea. Credo che, ovunque e comunque si operi, da qualunque punto di osservazione e operativo, occorra attrezzarsi per un nuovo rilancio del movimento moderno. Pochi e chiari punti.
Ce la farem(m)o? Non lo so: lo sapremmo solo tentando

Cordiali saluti,
G.C.

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Commento 6989 di giannino cusano del 28/03/2009


x Renzo Marrucci
Caro Renzo, quali che siano le ragioni, ho l'impressione che si sia tentato di fondare il quotidiano su un'avanguardia. Col risultato di corrompere l'avanguardia e di straniarsi dal quotidiano al solo scopo di esorcizzarlo.
Colpa dell'avanguardia? O, piutosto, di una sorta di incoscienza epidemica e collettiva per cui (hai perfettamente ragione) si pu impunemente sciupare perch tanto, poi, ci pensa il mondo dei consumi, dello spreco e delle risorse illusoriamente illimitate, a riallineare le cose? Ognuno per s, Peppe per tutti.

Morire a 74 anni? Che muori a fare, se poi 'sto mondaccio non cambia un po'?

A presto,
G.C.

PS: chi Peppe non lo so, ma ho il sospetto che possa far comodo immaginare che ci sia e provveda a dare un senso alle nostre cose. Ah, povero Spinoza ...

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Commento 7004 di maurizio zappal del 30/03/2009


Al di l degli intellettualismi affascinati e intriganti che mi riguardano e ci riguardano, una riflessione incompetente (nel senso della filosofia!), intendo farla! Questa bella disamina pi para- filosofica, che architetturale, scusate il disturbo "cazzuolesco" (che attiene alla cazzuola!), sbatte sempre con il problema "babelico" che "lega la struttura di una citt alla [sua]storia "! E mi riallaccio sempre a derrida che quando esprime il concetto "luomo non pi al centro dellarchitettura", certo , a mio parere, non intende che nella "citt" contemporanea stia scomparendo l'uomo ovvero il senso di abitabilit umana! Il pensiero-visione d'altro spessore! E il quesito non se piaccia o no il decostruttivismo! O meglio, se piace pi a Cusano o alla Torselli! La domanda quindi: larchitetto che agisce oggi sulla citt deve tener conto della disarticolazione spaziale anche in termini di rivoluzione spaziale? Segnica, formale, estetica , materica, archetica e tecnologica? E per me, millevolte , si! Ora, per tanti dotti, intellettuali e antropologi (alla La Cecla! per intenderci!) abbiamo raggiunto il non sense degli interventi architettonici nella citt! Dalle archistars alla signora maria tutto un pur! E c qualcun altro che osa dire che siamo alla catastrofe!!!Che c imbarazzo a proporre soluzioni architettoniche in aree urbane complesse e via dicendo! Il tema pare essere l architettura mediatica! Che non comprendo pienamente cos!Ora, minquieta abbastanza , che ci si sforzi a definire la citt quando chiaro a tutti, persino agli storiografi che la citt rimane un insieme aperto, incompleto non saturabile affinch possano convivere questo benedetto nuovo e quanto rimane del vecchio!!!Insomma e chiudo mentre derrida ci lascia in eredit la sua definizione di citt che deve restare aperta al fatto che essa sa che non sa ancora che cosa sar, qualcun altro, neanche abbiamo iniziato a vivere la contemporaneit e la rende un fossile! Insomma, mi pare che guardando il museo di Bilbao, gi ci si ponga come davanti ad una cartolina ingiallita, del secolo trascorso! Credo che i riferimenti siano chiari !Credo che ci sia una terribile incapacit di distinguere lastrazione e il fatto concreto che diventa la vera scelta della CITTA MODERNA! Ci anche una critica alla sinistrista demagogica visione conservatrice delle nostre citt! Il senso di libert sempre ritenuto qualcosa di proibito che attiene pi allarte che allarchitettura! Insomma la civilt occidentale , per dirla con Kraus, dimostrare che tra unurna e un vaso da notte c differenza e che in questa differenza soltanto ha il suo spazio la civilt. Ma gli altri, i positivi, si dividono in quelli che usano lurna coma vaso da notte e il vaso da notte come urna. Questa si, mi pare bella!


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Commento 7006 di giannino cusano del 30/03/2009


Caro Zappal, guardi che "cazz(uol)eggio" anch'io. Specie con la filosofia, la decostruzione e Derrida, che certo mastico un po' da selvaggio.

Credo che sia sulla parola "struttura" che occorre intendersi. Se analizzo una (tra infinite) possibile "strutturazione" dell'opera e del modo di pensare gli spazi del Borromini non faccio certo dello strutturalismo; cerco solo di afferrare ed evidenziare cosa individua e differenzia il suo lavoro da quello di chiunque altro. Formulo un'ipotesi di lavoro e dichiaro preventivamente le condizioni alle quali l'ipotesi decade.

Il problema, mi sa, nasce quando si tenta di congelare qualsiasi mutamento col pretesto di aver individuato la "struttura" immutabile, eterna e intangibile di una citt. Lo dico meglio: al di l dei linguaggi che volta a volta la investono, lo strutturalismo metafisico sosterrebbe che esiste sempre un "linguaggio dei linguaggi" che sottende la struttura urbana. Quindi, adeguandoci ad esso saremmo in sintonia col contesto. E' vero? Penso, col post-strutturalismo e contro Aldo Rossi e Krier, che sia profondamente falso.

Allora, forse, la domanda di Derrida : quale struttura individua possibili campi di aperture, rotture e mutazioni anche rispetto al passato, invece delle statiche regole del mimetismo col presunto contesto? Infatti pare anche a me che la citt altro non sia che questa cronica e dinamica trasformazione. Che non pu essere congelata in una visione statica, .perenne e metafisicamente strutturalista (le fissioni semantiche di Levy-Strauss, l'eterno ritorno per es. di piramidi, sfere, prismi ecc.)

N mi pare di aver impostato il discorso su "mi piace" o "non mi piace" la decostruzione, ma di aver cercato di intendere meglio che lezioni, sempre cazz(uol)eggiando, se ne possano ricavare. E ritengo che siano molte. Non ultima, l'insistenza sulla coincidenza di attivit creativa con attivit critica.

Sull'affermazione per cui "l'uomo non pi al centro dell'architettura" non so cosa dire, perch non l'ho incontrata in Derrida: un mio limite, sia chiaro.

Ma se partiamo da un punto di vista un po' pi laterale, a me pare di intuire qualcosa di importante. E, credo, una sua conversazione, sottotitolata in italiano, chiarisca abbastanza bene il tema dell'Altro e dell'Alterit come l'affermazione di fondo che precede qualsiasi domanda (in filosofia e non solo) e che fonda la domanda e con essa la "traccia". Questo credo collimi col tema della "non presenza", dell'uomo non pi al centro dell'architettura ecc., ammesso che lo sia mai stato.

La conversazione all'URL:
http://www.youtube.com/watch?v=zxMHXST56Pw

Cordialmente,
G.C.

PS: il Guggenheim di Bilbao a mio avviso un capolavoro. Ma trovo che Gehry sia una figura esorbitante rispetto al decostruttivismo, pur assorbendone temi e tensioni. Come l'impressionista Cezanne era molto pi articolato, complesso e debordante rispetto al puro e semplice impressionismo.

Tutti i commenti di giannino cusano

 

Commento 7008 di maurizio zappal del 31/03/2009


Giannino, cos mi pare di non essere pi elementare della scuola, cerchi di stanarmi in un campo ribadisco e mi sembra evidente che mal maneggio! Di quel che tu non hai incontrato, passeggiando a pag. 195 di Adesso l'architettura (j. derrida -prima ed. 2008 -Scheiwiller), disquisendo del lavoro di Eisenman, "...l'uomo non la misura di questa struttura architettonica..." , lo trovi. Tanto per la precisione ma non ci tornerei pi!Non mi sono, naturalmente, ben espresso sulla tua relationship con la Torselli ma dai ,era per sorridere un p! Gi ci sono tanti pontificatori! Penso che siamo dello stesso "partito" della libert di esprimersi in architettura! E volevo solo ribadirlo! Mi piacerebbe sapere ,invece e non me la bocciare tout court, cosa pensi sulla liquidazione ad un "fossile" che certa "Nuova critica architettonica " per me, "I Saranno Famosi", fa dell'architettura contemporanea e per esempio di Berlino,dopo la caduta del muro! Tutto qui, se ne hai voglia e tempo! Sinteticamente of course!

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Commento 7009 di giannino cusano del 01/04/2009


Va bene, Maurizio: non avevo afferrato l'humour. Capita, in Rete :)
Grazie per la segnalazione, ma "Adesso l'architettura!" non l'ho letto. Credo che per scrivere, per es., "Theodor Adorno e l'architettura" non serva tanto prendere alcuni scritti in cui lui parla delle Filarnonica berlinese o del razionalismo ma che sia pi interessante e aiuti molto di pi cercare di capire il suo pensiero complessivo, specie in relazione alla musica.

Dire "...l'uomo non la misura di questa struttura architettonica.." mi pare assai differente da "...l'uomo non pi al centro dell'architettura...".

Certo che sono per la libert architettonica. E penso che le invarianti di Zevi siano la "struttura" stessa di questa libert e del mutamento, perch sono un anti-codice. Costrinogno a non cullarsi sul gi acquisito ma a porsi ogni volta i problemi da capo, a ripensare sempre tutto alla radice.

Non mi ben chiaro a chi ti rifersici con liquidazione ad un "fossile" che certa "Nuova critica architettonica " per me, "I Saranno Famosi", fa dell'architettura contemporanea e per esempio di Berlino,dopo la caduta del muro!. Il movimento moderno vivo, vegeto, plurale e addita mille itinerari possibili.

Gira gira, torno sempre in compagnia di autori come Carlo Ludovico Ragghianti, Cesare Brandi, Lionello Venturi, Hans Sedlmayr, Alois Riegl, Luigi Picinato ... E, ovviamente, Zevi. Sono un accanito riletore. Questo non significa che non leggo autori pi vicini a noi (doveroso precisarlo, altrimenti mi tacciano di retrodatato) ma ho sempre l'impressione che si siano persi qualche pezzo per strada. Intendo i vari Frampton, Muchamp, Urussov. Trovo Koolhaas un ottimo crtitco, peraltro: molto intelligente e incisivo.

Berlino mi pare molto interessante. Ha ripreso vita dopo una lunga e terribile stagione. Alla fine degli anni '80 sono stato in molte citt della Germania, in Danimarca e Svezia, ma non ho mai visitato Berlino, quindi la conosco poco, a parte quello che scrivono le riviste. Vorrei andarci quanto prima.

A presto,
G.C.


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