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Tra i peggiori luoghi comuni della lingua architettura spicca,
per numero di riferimenti e per la popolarit di cui gode, il termine
contesto. Non v persona, tacendo la sua scienza, che non celi il
proprio dissenso per le manifestazioni eterodosse della cultura contemporanea con la frase fuori dal contesto. La forza del pregiudizio tale - dico per esperienza diretta - che il termine assume qualifica di categoria per negare anche il principio fondamentale di ogni democrazia: la libert di parlare (nel mio caso architettura). Coloro i quali, chiamati istituzionalmente a verdetto, ricusano in virt di un preteso contesto, paradossalmente negano il contesto democrazia dentro al quale tenuta la misura del loro giudicare. Logica singolare, circolare, insostenibile razionalmente. Logica comunque dilagante che, dalle aule universitarie fino alla commissione edilizia del pi piccolo paese, sostiene questa semplificata procedura di giudizio contro linvisa facolt degli individui di rappresentare liberamente la propria esistenza. Ammesso che la valutazione propriamente critica, quindi relativa al linguaggio ed alla sua tensione poetica ed espressiva, nutrita di cultura e conoscenze non ordinarie, davvero sorprendente il numero di commissioni, comitati, esperti, funzionari che la legislazione nostrana riuscita a produrre sulla testa dello sprovveduto cittadino. Il dilagante scatolame in stile (razional-popolare o postmoderno o vernacolare) della nostra architettura di massa figlio legittimo di commissioni, comitati, esperti, funzionari che, a quanto pare, non funzionano. Ma questo non importa quanto il credo che tutto avvenga nel e per il contesto. Compresa la repressione degli individui nelle loro cellette condominiali; compresa la rinuncia a disporre come meglio si crede della propria vita domestica; compreso lobbligo di pagare queste privazioni un prezzo molto salato. Il godimento meschino del divieto imposto gratuitamente ai propri simili protofascismo genetico della natura italica nel mondo dei nani della cultura pomposamente ha titolo di contesto. Bene, finalmente venuta lora di fare chiarezza. Mutuato dalla linguistica e dalla semiologia (o semiotica per coloro che apprezzano la distinzione) il termine contesto presuppone un testo. Per testo da intendersi un racconto, o meglio narrazione, espresso allinterno di un linguaggio non parlato. Un libro un testo poich le parole per essere espresse hanno necessit di un segno: lo scritto che sta allinterno del linguaggio scrittura. Unarchitettura un testo poich le sue parole hanno necessit di segno spaziale (architettonico) che sta allinterno del linguaggio architettura. Una citt un testo scritto con parole di architettura allinterno del linguaggio architettura, a sua volta parola del metalinguaggio urbanistica. La stessa scienza un testo, o
meglio un metalinguaggio, le cui parole necessitano di un ulteriore linguaggio
e relative parole fornite dalla matematica. Tutto questo pare coerente ed inoppugnabile. Ma tutto questo, come un semplice libro, presuppone un inizio o un assioma, una trama o una regola, uno sbocco o un risultato: una storia o narrazione. La struttura che contiene la narrazione, la lingua, ne determina il limite oltre il quale cessa la comunicazione. La struttura, quindi, presuppone una forma costruttiva dei contenuti e dei significati, una macchina logica che funga da sintassi. Presuppone, soprattutto, una regolarit logica e non disturbata. Presuppone e produce alla fine una sistemazione categorica ed enciclopedica della conoscenza. Tutta la costruzione della nostra conoscenza sembra reggersi grazie a questo sistema di strutture. Nessun testo pu essere compreso se le parole che lo definiscono non fanno riferimento allo stesso. Il testo quindi quella storia che si esprime con le parole che la definiscono. Il contesto, paradossalmente, esiste dunque prima che la storia sia scritta. Per la ragione filosofica la cosa, lessere esiste prima della sua narrazione. Per Heidegger la cosa,
lessere vaga angosciosamente fino alla sua dimora che
il linguaggio: non c cosa senza linguaggio; lessere alla
fine linguaggio. Il testo, lo scritto, traduzione della cosa in segno, alla fine segno. Da Platone fino allaltro ieri il segno non ha avuto vita propria, essendo dipeso dalla parola e dal suo significato, dalla
cosa di cui rappresentazione.
Il filosofo francese Derrida non daccordo. Tra cosa
e sua rappresentazione, tra essere e linguaggio per usare i suoi termini,
vi pari dignit ontologica; il linguaggio non coglie tutto lessere
e tra i due esiste uno scarto (diffra(e)nce), una differenza che legittima
lautonomia della scrittura. Anzi, il linguaggio scritto, il segno
offre maggiori possibilit di analisi rispetto a quello parlato per la
ragione che la scrittura libera lessere dal contesto in cui intrappolato. Decostruire il linguaggio significa quindi spezzarlo, frantumarlo, esaminarlo per parti, decontestualizzarlo affinch le differenze non rimangano precluse allanalisi e allinterpretazione. La conoscenza, dunque,
pare rifiutare il contesto, nutrendosi di differenze e frantumazione che
anzi lo aborrono. Filosoficamente la fine di una tale necessit unificatrice
e della storia che ne narra laspetto costruttivo.
Il linguaggio architettura forse immune dalla descritta necessit epistemologica? Direi proprio di no e, anche se personalmente ritengo limitante giustificare il segno architettonico con argomenti filosofici, trovo appropriato confutare linvasione della linguistica nellarchitettura con argomenti, appunto, della linguistica, della semiologia e della filosofia. Basta contesto, quindi, per favore. |