Ci vuole un altro sguardo
di Domenico Cogliandro
- 12/6/2002
Pubblichiamo la risposta di Domenico Cogliandro all'articolo di Giammarco Aulino "Quando la setta fa male. Chiacchiere di cemento".
Perfettamente daccordo con lei, su quasi tutto. Convengo sul fatto che la terapia invasiva (politica, economica e sociale), ove non prescritta in maniera attenta, rischi di peggiorare la situazione; sul fatto che per Sciacca produrre 1200 posti in un teatro sia una operazione sovradimensionata; sul fatto che alcune opere, se gestite male, non producano nulla se non il loro riverbero sullintorno. Certo, anche vero che mi trovo in una posizione indifendibile, per il solo fatto che sono un architetto: errori di giovent. Cerchiamo adesso di essere
ragionevoli, per, senza lasciarci andare a proclami tout court che non
risolvono alcun problema. Proviamo ad immaginare, tra i tanti possibili, almeno
due scenari: quello che prevede la demolizione del Teatro Popolare dei Samon
e quello che produce la sua messa in funzione. Mi pare che le scuole di
pensiero, tutto sommato, seppure con tutte le sfumature del caso, si
possano individuare in queste due correnti. Gi e su.
Lo scenario del completamento, che trovo abbastanza ragionevole,
da non saccense, pu consentire di prefigurare almeno tre vie.
Una prima meramente speculativa, posta a baluardo della innocenza
dellarchitettura versus la sua negazione, cosa verso cui le amministrazioni di molti centri
urbani (qualunque centro urbano, Sciacca uno tra i tanti) tendono a
riversare le proprie contraddizioni; questa una opzione metafilosofica
come lei afferma, che pu consentire, se non proprio una rinascita di
certa architettura colta, almeno una messa in discussione dei suoi
principi, per rendere fondativa una opportunit reale per le nuove
generazioni, di cittadini e di architetti. Una seconda via di realpolitik, attraverso cui possibile avere
a disposizione un corpo, un frammento urbano, al quale dare un
nome (teatro, cinema, multisala, centro sociale, centro
culturale, scuola di pensiero e quantaltro), e per il quale
prefigurare un futuro che passi dal lavoro per i giovani di Sciacca (altro che tendenziosi
proclami pre-elettorali), dalle opzioni culturali per unarea vasta
di cui Sciacca parte (ma va da Agrigento a Trapani), dalla riconoscibilit
emblematica di questa realt per il bacino del Mediterraneo.
Una terza, e temporaneamente ultima, di assunzione di
responsabilit, dimostrando che le opere realizzate per Sciacca,
e a Sciacca (ma questo pu valere per qualunque citt del Sud),
sono un patrimonio per la collettivit. In tal senso le porto
alcuni esempi, che mi paiono calzanti. Sono esempi di una terra che conosco, la
Calabria, in cui vivo e che per molti aspetti ha liminarit tali con i
territori che lei abita da sembrare realmente contigui. Reggio Calabria
dovrebbe bastare, come esempio. Lo scomparso sindaco Italo Falcomat ha visto, a
mio parere, nelle contraddizioni della citt una speranza per il futuro e da
l partito per rifondare una citt che era uno sfacelo, sia
amministrativo che sociale. Partendo da tre luoghi, pi che da trenta azioni
politiche o da trecento posti di lavoro a macchia di leopardo. Ha ridestato
negli abitanti della citt lorgoglio di essere calabresi e di essere reggini,
cosa di cui si era perduta traccia o che collimava, pi con danno che con
utilit, con i moti degli anni settanta, quelli del boia chi molla.
Tre luoghi simbolo, ovviamente. La Via Marina, la Piazza del
Popolo (toh,
una parola che ritorna anche a Sciacca), il quartiere CEP. Nomi e
cose che a
lei diranno ben poco, per questo cercher io di essere chiaro e
lei trovi
gli opportuni paragoni da calzare addosso alla sua citt. Della
Via Marina
si favoleggiava da almeno trentanni senza venirne mai a
capo, pensi solo
questo: nessun abitante di Reggio Calabria, fino ad oggi, aveva
mai avuto, almeno da dopo il terremoto del 1908, un reale rapporto di
contatto col mare, se non a costo di sottopassi, scavalcamenti e arzigogoli da
far invidia a Huckleberry Finn. Il mare era l davanti alla citt,
percettivamente visibile ma praticamente irraggiungibile. Venga a
vedere oggi la Via Marina. Ne parlo da fruitore, ovviamente, perch da
architetto mi viene da pensare: un progetto che non ritengo al passo con
i tempi, e anzi risolve il problema del suo tempo in una ridondanza
ottocentista (comprensiva di arredo luminario e di ipertrofici dettagli litici)
che non mi trova per nulla daccordo. Ma non vivo coi paraocchi e
capisco che adesso quella Via Marina, per quanto retr, un valore aggiunto alla
citt. Piazza del Popolo, di fattura mussoliniana, contigua alla Casa della
Giovent Fascista, era diventata nel tempo un mercato allaperto, e
poi questo mercato, consolidato dalla consuetudine di essere tale, si era
trasformato in un baraccamento di strutture pi o meno stanziali, realizzate
con lamiere, tende, eternit, reti metalliche e rattoppi vari. Era
anche diventato, per eccellenza, territorio della citt concesso alla
mafia locale, anzi territorio della mafia, luogo di spacci vari e di
vari riciclaggi, con il quale la citt conviveva languendo. Falcomat
ha mandato via i mercanti dal tempio, e mi perdoni la leggerezza con cui mi
inoltro in questo paragone, e per questo ha subito attentati, ritorsioni e
minacce, ma non ha mollato. E adesso Piazza del Popolo veramente del
popolo. Il mercato continua ad esserci, ma ha orari precisi e dal pomeriggio
in poi la piazza, pulita e disinfettata, viene restituita alla citt,
perch i ragazzini ci vadano a giocare con i pattini e gli altri a
passeggiare o cosa. Non solo. Quella piazza oggi la sede preferita dei
concerti, delle feste popolari, delle manifestazioni pubbliche, dei comizi
elettorali, insomma di tutte quelle attivit in cui gli abitanti di Reggio
sono coinvolti a partecipare, e a ritrovarsi in un luogo collettivo.
Il quartiere CEP, di evidente edilizia popolare, come denuncia lacronimo
che lo indica, e come si vede, qui, dal linguaggio ex minimis utilizzato, fino
ad appena cinque anni fa era inattraversabile, avendo una fama di
territorio espropriato da parte di alcune potenti famiglie della ndrangheta
e, anzi, la sorte faceva il paio con la Piazza del Popolo di cui sopra: da
una parte la residenza, CEP, dallaltra il luogo del lavoro. Lei mi
capisce. Era in maniera esclusiva il quartiere pericoloso di Reggio, e il
destino, si sa, per i mille abitanti del quartiere non sarebbe mai cambiato. Oggi
CEP non si pu certo dire che esteticamente sia un quartiere modello, ma un
principio di modello etico s, alla maniera in cui ne parla Kierkegaard in
Aut Aut. La trasformazione che ha avuto, partecipata con gli stessi abitanti,
quelli motivati, e con un presidio di associazioni culturali forti del
loro coraggio e della loro volont di cambiare le cose, stata
radicale, al punto da incistare allinterno del quartiere finanche una
sede dellUniversit di Reggio Calabria. Ora, Falcomat non era
Superman, ma una persona ragionevole tesa, a mio parere, a dimostrare che la
normalit gi una grande conquista. Questo quanto, e mi pare sufficiente. Ma
il mio ragionamento, seppur di parte, non concluso. Dobbiamo porre in
essere la simulazione della demolizione. Anche questa porrebbe almeno due
opportunit che Sciacca dovrebbe sfruttare. Una prima riguarda, ed la pi
palese, il terreno a disposizione, ovvero luso che si potr fare del
terreno rimasto libero, calcolata anche la scarificazione (o il seppellimento)
delle fondazioni, dalla struttura demolita, e in tal senso gli
sviluppi, pensando al terreno in quanto tale, sono diversi: parcheggio per le terme,
allargamento del giardino adiacente, area di ristoro allaperto,
e via dicendo. Un cambio di linea tematica dovrebbe nel tempo produrre
anche una cancellazione dalla memoria di unopera cos ingombrante,
per cui andrebbero escluse attivit culturali che rammentino il precedente uso, e
mai e poi mai andrebbe realizzato un teatro allaperto, tipo cavea, perch
sarebbe una dbacle per il significato della demolizione di un teatro; si
figuri, una memoria di un teatro che si demolito perch ritenuto
ingombrante. Una seconda, di pi largo respiro, la riorganizzazione funzionale
dellintera area termale a partire proprio dalla cancellazione dellopera
dei Samon, ostacolo intorno al quale a tuttoggi bisogna affiancarsi. La
demolizione, proponendo uno scavalcamento, consentirebbe, per esempio, lallargamento
della sede stradale, se non la sua deviazione in favore di una
riorganizzazione a parco di quella che adesso la sede stradale
che, scavalcando la strada che conduce al porto, andrebbe a
congiungersi naturalmente col giardino comunale esistente (una operina da due
soldi) per fare in modo che Sciacca abbia un fronte a mare interamente
destinato al passeggio, allo struscio si dice da noi, e la sede viaria passi
pi interna, tra le terme e il giardino esistente, proprio sulla sede del
teatro. Non vedo altro, o non riesco ad immaginarmi altro. Ma due ipotesi
sono pi che sufficienti, mi pare per ipotizzare una rinascita civica di
Sciacca a partire da quella demolizione. Evidentemente, il giudizio sulle
ipotesi va lasciato a chi legge, per cui non porr altre questioni in mezzo.
Ma se dico fiore non si sente lodore, canta
Lorenzo Cherubini, e se dico demolizione il Teatro non cade. La demolizione bisogna farla, e
per farla bisogna spendere dei soldi perch non credo esistano
associazioni di volontariato onlus disposte a investire tempo e denaro in una
demolizione, ma devo dire anche che non conosco a fondo la realt di Sciacca.
Per cui, posto che esista una azienda che volontariamente, e a proprie
spese, sia disposta a demolire il Teatro Popolare dei Samon, bisogna
approfittarne, immaginando sempre che questa azienda faccia questo per un fine
ecumenico, umanitario e filantropico, e senza scopo di lucro successivo (riuso
del terreno a fini speculativi, lottizzazioni varie, concessioni di
terreni a costo zero da altre parti, subappalti vari, concussioni con
imprese non in odore di santit, eccetera). Se questa ditta non esiste bisogner
pur pagarne una, allora! E quanto costa la demolizione di quellopera?
Probabilmente, ma ho fatto dei calcoli approssimativi, tenendo in
considerazione le valutazioni del Prezzario Regione Sicilia (per
la demolizione al metro cubo, il relativo trasporto dei materiali a
discarica, il trasporto dei rifiuti speciali, e mi fermo qui per ora, senza
tener conto di polveri, utilizzo delle sedi viarie, inquinamento acustico,
eccetera) e dei disegni esecutivi del teatro pubblicati su Casabella, non
avendo a mia disposizione altre fonti oggettive, e facendo le opportune
conversioni monetarie, visto che il prezzario a mia disposizione di oltre
cinque anni fa, ecco, dovrebbe venire a costare tra i due e i tre milioni di
euro, tutto qui. Pi o meno quanto serve per riutilizzarlo.
Veda, io non mi faccio illusioni e so bene che qualcuno dovr
fare bene i conti prima di assumersi la responsabilit di gestire un
finanziamento pubblico di questa portata (o di portata superiore), ma anche
vero che questi conti si possono fare evitando ogni speculazione sul da
farsi. Io non
credo ai proclami elettorali, da qualunque parte giungano, e non
credo nemmeno che per ricucire la frattura tra il Teatro e la sua citt,
lo si voglia o no, siano solo necessari i soldi: bisogna mettere in
campo una coscienza costruttiva, e qui non intendo dal punto di vista
tecnico. Bisogna essere disposti al futuro dei propri figli, orgogliosi di
sentirsi siciliani ma non per un vezzo letterario. Un teatro, come uno stadio o una
piazza, come un giardino o delle terme, come un porto o una strada ben
pulita, come la certezza di un approvvigionamento idrico o la chiarezza di un
programma politico, sono patrimoni che vanno spesi bene: le parole vanno
usate per produrre. E poi bisogna usare le parole giuste, del troppo dire
non se ne fa nulla. Ci vuole / un altro sguardo / per dare senso a ci
/ che barbaramente muore ogni giorno / omologandosi. Queste, ad
esempio, sono parole di un intellettuale napoletano (poeta, scrittore, attore,
regista teatrale) scomparso quasi dieci anni fa, Antonio Neiwiller. Ci
vuole un altro sguardo. Ci pensi, e mi risponda.
(Domenico Cogliandro
- 12/6/2002)
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