Riscatto Virtuale. Una Nuova Fenice a Venezia: metafora e architettura
di Sandro Lazier
- 10/5/2001
Personalmente non do molto credito all'uso della metafora
in architettura perché, solitamente, l'efficacia del messaggio
letterario di cui essa ha necessità domina e costringe la dimensione
spaziale. Se creare questo tipo di gerarchia, che l'invasione della letteratura
presuppone quando si fa uso dell'allegoria, da un lato semplifica, esplicita
e razionalizza l'atto comunicativo, dall'altro rende equivoco il significato
che diamo alla parola architettura. L'architettura è e resta prima
di tutto manipolazione dello spazio; non è strumento diverso dalla
parola di racconto letterario.
La confusione aumenta quando, oltre a contenere una esplicita trama letteraria,
l'architettura e l'esperienza che ne facciamo viene resa strumento mediatico.
(Vedi l'articolo
A ciascuno il suo di Paolo G.L. Ferrara )
E' senz'altro vero: se la realtà - o l'idea che di questa possiamo
avere - è riducibile a linguaggio perché siamo in grado
di darne solo una descrizione, tutta quanta la realtà cosciente
deve stare all'interno di un sistema di relazioni linguistiche che definiamo
per semplicità "comunicazione".
E' comunque altrettanto vero: l'ambito della comunicazione non privilegia
alcun tipo di espressione linguistica (letteratura, pubblicistica, architettura,
ecc..) e i vincoli sintattici che ne deduciamo appartengono esclusivamente
alla lettura che noi ne facciamo e non ai segni che, comunque ed in qualsiasi
forma, ci dichiarano il reale. L'esperienza che realizzo di una architettura
è esperienza di segni - quindi di comunicazione - che in ogni modo
possiede partecipazione del segno spaziale.
Voglio dire, per semplificare: posso benissimo costruire un edificio a
forma di bottiglia per una clinica per il recupero degli alcolisti (metafora+ironia)
e rivestire le pareti di questa con pannelli multimediali che reclamizzano
alcolici (metafora+ironia+sarcasmo) ma la comunicazione non termina qui.
Oltre al racconto puramente allegorico devo "subire" in ogni
modo il segno spaziale, unico idoneo a farmi definire "architettura"
ciò di cui sto avendo esperienza.
Se, per esempio, scrivo ad un amico per comunicargli che sono furioso
nei suoi confronti, quindi la mia volontà è esclusivamente
quella di comunicare un pensiero, e solo questo unico pensiero, fisicamente
devo farlo attraverso segni (parole) scritte sulla carta; questi segni,
una volta che mi sono rappacificato - e quindi ciò che intendevo
comunicare non dovrebbe più avere né senso né significato
- descrivono invece altri e molti più aspetti del reale e, in particolare,
consegnano la mia necessità di comprensione e conoscenza a quel
territorio cognitivo che la mia mente chiama con un termine generale letteratura,
non psicologia, o morale o altro pur essendo questi presenti.
Per finire, i segni architettonici "storicamente" tendono all'astrazione,
al suono spaziale, ad uno stretto rapporto con i segni musicali, e, se
si vuole, al rumore. L'imitazione formale o la costruzione di racconti
per immagini, pur se nella veste allegorica, è sempre fuori dalla
musicalità dell'architettura. Ne è lecita comunque la contaminazione.
La prima domanda che mi sono posto guardando "le immagini" della
tesi di Galofaro è stata: quale peso ha la metafora dell'incendio
della Fenice rispetto alla esperienza spaziale che mi viene proposta?
A questa domanda ha risposto ottimamente la prefazione di A. Saggio. (http://www.arc.uniroma1.it/saggio/FromMyDesk/FENICE/Fenice.Html)
La seconda domanda è stata: quale influenza hanno avuto gli ultimi
lavori di F. O. Gerhy nella redazione di questo progetto (dato e rilevato
in esso un palese sincronismo espressivo)? Questa domanda dà spunto
ad una riflessione sul concetto di forma che rimando all'articolo Formalismo
o libert espressiva?
(Sandro Lazier
- 10/5/2001)
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