Hopeless Monster (Night at the museum)
di Ugo Rosa
- 8/11/2010
"Di filosofia non neppure il caso di parlare; si moltiplicano
in compenso i trattati dastrologia: pi numerosi delle ragnatele
dun castello in rovina."
Johann George Hamann, Aesthaetica in nuce
Il rapporto con il nuovo ha il proprio modello nel bambino che preme
i tasti del pianoforte alla ricerca di un accordo ancora mai ascoltato, inviolato.
Ma laccordo c sempre gi stato, le possibilit
di combinazione sono limitate, in realt tutto si trova gi nella
tastiera. Il nuovo lanelito verso il nuovoSe lutopia
dellarte si compisse sarebbe la sua fine temporaleCi
lampante per larchitettura: se per saziet per le forme funzionali
e per la loro totale adeguatezza, volesse abbandonarsi alla fantasia sbrigliata,
essa cadrebbe subito nel Kitsch. Come la teoria, larte non pu
concretizzare lutopia, nemmeno negativamente. Il nuovo, in quanto crittogramma,
limmagine del tramonto; solo mediante lassoluta negativit
di questultima larte esprime linesprimibile, lutopia.
Theodor W. Adorno, Teoria estetica
Quello che avevamo creduto il regno della rarit, delleccezionale
e dellinsolito, delloriginale e dellirripetibile ci si
presenta invece con i connotati esattamente rovesciati dellabbondante,
del ripetibile, del comune, del prevedibile e del banale. LEccezione
diventa la Regola. E la regola non prevede regole, non conosce confini, ignora
ogni limite. Si fonda infatti su un accreditato e diffuso principio estetico:
quello secondo il quale la sola norma del Linguaggio Poetico la violazione
di una norma contro cui tutti ancora si accaniscono, ma che ormai nessuno conosce.
Nellapoteosi finale della sua ubriachezza, luniverso culturale
che si autodefinisce poetico nega levidenza della propria sparizione,
del proprio suicidio per troppo ottimismo. La qualit pura si
rovesciata in pura quantit.
Alfonso Berardinelli, Lesteta e il politico. Sulla nuova
piccola borghesia.
Nel bellunanimismo (oppure nel circospetto glissare) che abbraccia
questultima scenografia della Hadid c qualcosa di sinistro.
Da ogni parte esaltato il suo rango di opera darte ed
in funzione di questo che alledificio volentieri perdonato ci
che a unarchitettura non si dovrebbe perdonare: il fatto cio
che, troppo occupata a cantare, lei per prima, le sue lodi, finisce per dimenticare
la minuscola verit che non per questo che unarchitettura
viene al mondo.
Certo, va riconosciuto: i benefici che allestimenti urbani di questo genere
apportano a quella che si definisce limmagine della citt
che le ospita sono evidenti.
Roma, in tal modo, si sistema finalmente la page con unopera
che accudisce, accarezzandolo, perfino lego dellutente dei mezzi
pubblici e gli mostra con bella evidenza come anche lui, che si sposta in tram,
possa apprezzare lavant-garde.
Dire dunque, come sto per fare io, quello che questo edificio rappresenta per
chi ritiene che larchitettura debba, in primo luogo, servire
diventa puro autolesionismo: se non lo fai per invidia, allora sei un passatista
ovvero, senza mezzi termini, un oscurantista (ambedue eufemismi per intendere
che hai perso, insieme allultimo treno, anche la testa e sei ormai un
barbone che vive fuori dal mondo e dal suo tempo).
Uniformarsi, insomma, non perch altrimenti per te c il
bastone, il rogo o lolio di ricino (che sarebbe ancora una sorte non
disprezzabile) ma perch questa appare ormai lunica cosa che ancora
abbia senso e, se non lo fai, sei matto.
Cos come accade in ogni campo.
Dato che fuori dalluniformit, oggi non sembra esserci che il
nulla.
Cos la critica italiana, che dellessere aggiornata e del non
farla mai fuori dal vaso si fa un punto donore, dopo aver segnalato che
chi si contenta gode, che meglio un uovo oggi che una gallina domani,
che a caval donato non si guarda in bocca e che ogni lasciata persa,
ha, con lerudizione e la forza iconoclasta che tutti le riconosciamo,
approfondito il suo giudizio con riflessioni come: lerba del vicino
sempre pi verde, ogni scarrafone bella mamm soja
e il mondo bello perch vario.
Dopo queste ponderate considerazioni, e appurato che a noi chi ce lo
fa fare, la critica non sembrerebbe ulteriormente interessata alla questione
del Museo nazionale delle arti del XXI secolo recentemente inaugurato a Roma
(con uno di quei deliziosi nomignoli che, come Miuccia, Pigi, Bobo o Papi tengono
in s come uno scrigno prezioso tutta lItalia doggi
Maxxi).
Visto, dunque, che sembrano avere finito, adesso pu passare la nettezza
urbana, ma prima che arrivi il furgone, pur sempre il turno di quelli
che, come me, frugano nellimmondizia.
Siccome da qualche parte dobbiamo pur cominciare, allora cominciamo dalle parole
che qualche tempo fa scrisse Pio Baldi, direttore per i beni culturali della
Campania e presidente della fondazione che gestir il Maxxi nei tempi
a venire:
Ledificio di Zaha Hadid talmente straordinario, che abbiamo
deciso di inaugurarlo due volte - dichiara Pio Baldi - la prima, vuoto come
non sar mai pi, animato dallinstallazione coreografica
di Sasha Waltz. La seconda, nella primavera del 2010, con le opere darte
che dialogheranno a volte armoniosamente, a volte per contrasto - con
le forme estreme dellarchitetto Hadid.
A volte armoniosamente e a volte, voi capite, per contrasto, perch,
insomma, non se ne esce: se non sei vivo, allora, vuol dire che devi essere
morto.
Ma se, per ipotesi, questi cazzo di quadri non si volessero fare esporre e opponessero
resistenza? In tal caso si ricorrer alle maniere forti, come precisa
in unaltra incantevole intervista lo stesso Pio Baldi facendosi prestare
le parole direttamente dallispettore Callaghan:
In tal caso li appenderemo al soffitto oppure li stenderemo sul pavimento.
E quando parla uno che oltre a dirigere presiede, allora bisogna sempre prenderlo
sul serio perch alle parole forse seguiranno i fatti.
Piuttosto che incamminarmi verso lombra minacciosa proiettata da questa
profezia biblica, per, io vorrei volgermi indietro alla prima delle
due straordinarie inaugurazioni con cui stata varata questarca
che trasporta al suo interno, a due a due, tutte le bellezze e le bont
dello zeitgeist.
Codesto sarcofago che custodisce letica e lestetica dei tempi
nostri non stato inaugurato, cos come dovrebbe capitare alle
sale espositive, con una mostra, bens facendo da scenografia a un balletto:
http://roma.corriere.it/roma/...
E il sarcofago, come si pu vedere, era effettivamente privo della mummia,
vuoto come non sar mai pi dice il nostro
Pio Baldi (e non si pu fare a meno di cogliere una nota di rimpianto
nelle sue parole).
Vuoto, perch nulla infastidisse con elementi estranei lintenso
rapporto coreografico tra danza e scenografia (Sasha Waltz ha gi usato
il Museo di Berlino di Libeskind per una sua coreografia e, siccome non c
due senza, tre e lei non mica scema, vedrete che alla prossima toccher
a un qualche sarcofago di Koolhaas).
Pu darsi che il caso abbia giocato un ruolo determinante in questa inaugurazione
coreografica, io non lo soma so che non poteva esserci un cominciamento
pi gravido di destino e presago di futuro.
E neanche di pi profondamente giusto.
Giusto perch conforme a ragione e adeguato al nomos delledificio.
Giusto in quanto espressione del suo carattere pi profondo ed eco della
sua voce pi propria.
Giusto, insomma.
La consacrazione della cosa dunque avvenuta nel migliore dei modi.
Perch nulla, meglio di unazione coreografica, poteva consacrare
un allestimento scenografico concepito e edificato al fine di ospitare azioni
coreografiche.
Qualcuno, se non qui altrove, deve averlo capito.
E ha provveduto.
Dopo aver ascoltato la voce profetica di colui che ha presieduto e diretto Die
Weihe des Hauses, ascoltiamo ora la voce pi modesta, ma non per
questo meno degna dascolto, di chi costituisce il punto terminale di
quelle profezie: lorecchio attento e perspicace cui esse sono dirette.
Quello dellutente medio di architettura e mostre darte.
Ecco un commento (da internet) che ho scelto per la concisione con cui squaderna
tutti quei concetti dordinanza senza i quali, sospetto, il genere non
avrebbe mercato:
Nel tono usato dall'autore dell'articolo sul Maxxi ci
si riferisce a un articolo nel quale lautore, molto sensatamente si era
permesso, senza per questo mettere in dubbio neanche per un momento lartisticit
del malloppo, di avanzare dei dubbi sulla funzionalit dellinsieme
e sui suoi costi di gestione - si intravedono le tipiche paure e perplessit
che gli italiani abbiamo nei confronti del nuovo. Architetture rivoluzionarie
come il museo di Bilbao di Gehry o altre opere di Zaha Hadid, creano in molti
(architetti sopratutto), un moto di ribellione a quello che un modo
contemporaneo di intendere l'architettura. Infatti viviamo in anni in cui dinamismo
e velocit, grazie anche alla tecnologia, fanno parte del nostro quotidiano.
E quindi giusto che ci sia trasferito anche nell'architettura.
Ma molti architetti sono stati "addestrati" a costruire il mondo con
statici cubi o solidi elementari, quindi spesso non capiscono le nuove dinamiche
forme delle nuove costruzioni. La gente invece dimostra di apprezzare queste
novit architettoniche, e si vede dal successo di nuovi musei e strutture
culturali. Quindi io dico che bisognerebbe mettere da parte certe chiusura mentali
dovute a limiti "visivi" e a lasciarsi trasportare dalle fluide correnti
della nuova architettura che poi sono simili ai nuovi flussi dinamici delle
nostre esistenze.
Dal tono e dalla terminologia del nostro soggetto arguisco che si tratti di
architetto o aspirante, ma direi che la sua professione non di primaria
importanza, come non lo la sua competenza specifica.
Ci su cui desidero indirizzare la vostra attenzione il fischio
di pallottole come Fluido, Dinamico, Velocit, Nuovi Flussi Dinamici
dalla cui emissione, senza neppure lo sforzo di prendere la mira, deriverebbe
una conclusione critica che, se non di primo pelo, ha per tutta la tinteggiatura
adatta a farla sembrare appena uscita della catena di montaggio.
E, vi prego di notare, tutte quelle parole sibilano come scudisciate dirette
a dare una lezione indimenticabile al malcapitato intenzionato a negare che
la cosa in questione, insomma, sia un capolavoro dellarchitettura, o
ci si avvicini assai.
Ora io vinvito a una rapida scorribanda su internet alla ricerca di pareri
nettamente contrari.
Temo che faticherete a trovarne.
Io, almeno, non ci sono riuscito.
A parte qualche sporadico (e sempre timidissimo) tentativo di richiamare lattenzione
sul fatto che il presepio costato 150 (centocinquanta) milioni di euro
e che, a quanto pare, gestirlo coster un fottio, ferma restando la fluidit,
si va da concetti come opera capace di trasformare la nostra idea
di architettura a opera in grado di tradurre limmaginazione
in immagine e limmagine in architettura da un modo unico
di relazionarsi al contesto fino allerotismo puro di spazi
in grado di infondere piacere.
Quasi sempre ci si estasia sulla bella sensualit dellinsieme
e sul flusso di emozioni che ne deriva.
Tutto questo di estremo interesse e, paragonato alla crociata portata
avanti senza alcun timore del ridicolo (ricordo, en passant, il proclama di
un personaggio al di sopra di ogni sospetto di competenza come Alemanno sullabbattimento
delledificio di Meier e la raccolta di firme per un referendum che avrebbe
dovuto farne uno sfacelo) quando si tratt di ergersi contro la follia
modernista costituita dal museo dellAra Pacis, potrebbe apparire sorprendente,
o per lo meno strana.
In realt non penso che questo cambiamento di temperatura sia spiegato
solo dalla differenza dei contesti (il museo dellAra Pacis sta un pochino
pi al centro dellaltro).
Roma daltra parte (come Venezia e ogni altra Sacra Citt dItalia
tanto quanto linfimo buco di provincia) ha in pieno centro una miriade
di porcherie che sono state costruite, a fianco a fianco a Intoccabili
ed Eterni Monumenti dello Spirito, negli ultimi decenni da ingegneri,
geometri e architetti di ogni risma senza che nessuno ci facesse caso.
Credo invece che a giocare il ruolo decisivo siano proprio le diverse caratteristiche
formali dei due manufatti e, ad ogni modo, proprio lindagine
su questo che dovrebbe, mi pare, interessare una critica degna di questo nome.
Prendiamo le reazioni di un medesimo personaggio (anche lui esente, per cos
dire, da ogni responsabilit e del tutto privo di competenza in materia
ma proprio per questo rappresentativo dellopinione media, e dei media,
intorno a questi argomenti) sulle due architetture.
Ecco il signor Sgarbi che tuona da Il Giornale del 22 aprile 2006
sul progetto di Meier:
Punta Perrotti! Punta Perrotti! Punta Perrotti! E questo il
grido a cui i cittadini di Roma affidano i loro auspici per una soluzione futura,
non troppo futura, che ripari allo scempio dellAra Pacis, inaugurata
ieri con insolente e beffarda coincidenza con il Natale di Roma
Il tono, come si vede, quello dellappello Dannunziano per riprendersi
Fiume in armi, e la soluzione futura sarebbe, ovviamente, quella finale: labbattimento,
costi quel che costi, di quella che definita, facendo ricorso a unimmagine
potente, una pompa di benzina texana (si noti
lefficace battuta da barzellettiere Berlusconiano, quellumorismo
sul mericano che, in quanto tale, o zio Tom
oppure John Wayne, anche se nella fattispecie pi Newyorker
di Woody Allen e sembra il professore con la pipa e le toppe ai gomiti di una
Campus novel).
Per quanto invece riguarda il centro di arte contemporanea della Hadid, DAnnunzio
se ne rimane al Vittoriale e il tono si fa comprensivo e colloquiale, con (perfino)
qualche venatura di lusinga:
http://tv.repubblica.it/...
In questo caso, il noto personaggio televisivo non preconizza alcuna soluzione
finale (la funzionalit delloggetto andr semmai verificata
nel tempo, il che vuol dire che gli si augura lunga vita) ma si
premura immediatamente di accettare lincarico, offertogli
la carte, di consulente per le acquisizioni del museo!
Questopera appare anche a lui (che, stando alla Hadid, aveva scambiato
i pilastri per allestimenti artistici): a suo modo straordinaria.
E appare tale perch innegabilmente artistica,
semmai solo il suo esserlo troppo a meritare
un rimbrotto.
Nel caso del Museo dellAra Pacis, invece, le cose non stavano cos.
L, a fare difetto, era infatti proprio il gradiente di artisticit.
In quel caso, infatti, larguta definizione del giornalista darte
fu, come s letto, una pompa di benzina texana.
Il fatto che quel Nuovo che nella scenografia della Hadid
solo rappresentato viceversa presente, e dunque fastidioso,
dirompente e provocatorio, nel progetto in apparenza assai pi pacato,
di Richard Meier.
Ed questo, e non certo la rappresentazione patinata di un nuovo
fasullo, scenografico, conformista e sostanzialmente inoffensivo come quello
del Maxxi, che fa andare in bestia un filisteo come Sgarbi.
Sarebbe difficile comprendere, altrimenti, la violenza delle crociate contro
il progetto di Meier (che certo non difetta di sobriet e, semmai,
fin troppo compassato) a fronte delle polveri bagnate con cui (non) si
sparato questa volta.
Daltra parte non un vezzo tardo romantico il girare vorticosamente,
degli autori e dei tifosi (anche quelli non del tutto sprovveduti) intorno a
una parola come emozione (flussi emozionali, sensazioni ineffabili,
dinamismi sensuali ecc.).
Questa parola, che per ogni forma darte rappresenta una corda sospesa
su un abisso, sulla quale occorre saper camminare con capacit che non
si acquisiscono certo a furia di sentimentalismo, in architettura diventa una
polpetta avvelenata.
Basta leggere i resoconti giornalistici e le entusiastiche cronache dei blogger
per verificare fino a che punto ci simmerga nel vortice delle emozioni:
lo spazio di questi allestimenti (si parla sempre di spazio
e questo per ragioni che non credo sarebbero piaciute n a Wright n
a Zevi, ma solo perch parlando di spazio piuttosto
che di muri, fenestrature, giunti, attacchi e dettagli che si pu dare,
appunto, spazio alle emozioni, le quali difficilmente
possono appigliarsi al telaio di una finestra e se lo fanno sembrano fuori luogo
come quei babbi natale appesi ai balconi delle palazzine) lo spazio, dicevo,
sempre fluido e complesso e ambedue questi
aggettivi non sono usati, com sempre avvenuto, in maniera problematica
riportandoli alla qualit delloggetto, bens sono ipostatizzati
in giudizi di valore: uno spazio vale perch fluido
e complesso e il resto secondario ma, pi spesso,
irrilevante.
E infatti non sono riuscito a leggere un resoconto di questa cosa (da Casabella
in gi) che non mi spiegasse quanto, questa cosa, fluida. Diamine,
deve essere talmente fluida che lintelligenza non pu che scivolarvi
sopra, smettere ogni funzione critica e sciogliersi in apologia idiota.
E sorprendente vedere come critici di architettura accreditati vadano
in giro attraverso questo stupido accrocco sussiegoso, monumentale, inutile
e follemente fatuo senza lasciare al buon senso quel tanto di spago per consentirgli
di vedere ci che hanno sotto gli occhi: che questa dannatissima cosa
non funziona e non funzioner mai se non a furia di raffia e silicone.
Magnifico affare per quello che costata.
Andr benissimo per il vernissage e come scenografia del balletto.
Meglio di niente.
Poi ci sar sempre il buontempone disposto a tirar fuori il Guggenheim
di Wright: I soliti parrucconi! Pure l si disse che non era possibile
appendere i quadri!.
La qual cosa una sciocchezza perch nel Guggenheim di Wright
il rigore geometrico del percorso espositivo trapassa in funzionalit
senza neppure una sbavatura, laddove qui non c passamano che
non sbrachi nel melodrammatico tentativo di mutare ogni stecca in un do di petto.
E, senza offesa per nessuno, mi piacerebbe essere Dio per fare risuscitare un
momentino Frank Lloyd Wright e chiedergli cosa ne pensa di questo paragone.
Scommetto che ci sarebbe da divertirsi.
La cosa pi rilevante che non c nessuno, proprio
nessuno, tra quelli che frequentano studi e facolt di architettura (disegnatrici,
segretarie e dame di compagnia) che faccia a meno, dopo la visita incantata,
di tirar fuori le emozioni e i sentimenti.
Si conferma tristemente quello che scriveva Santayana:
Linclinazione al sentimento e alla suggestione evocativa,
di cui fiero il nostro tempo, a scapito della bellezza formale, indica
unassenza di cultura cos reale, ma inconfessata, come quella
del barbaro che gozzoviglia in magnifica confusione.
Al contrario della barbarie autentica, per, questa da cui siamo afflitti
adesso si agghinda come un cicisbeo e non riesce a trovare un barlume di autenticit
neppure quando si stravacca e, dopo la gozzoviglia, d inizio alla gara
di rutti. Perch a ogni inconveniente si premura di appendere un cartellino:
Trattasi di simbolo, consultare il depliant acquistabile in foyer.
Perci siamo qui a prendere appunti.
Questa mia opera dice la Hadid, la cui genialit
trova sfogo anche nel campo del pensiero puro, tanto che Time
la pone al primo posto tra pensatori pi influenti del pianeta
giunge a cavallo tra fluidit e astrazione.
Non possiamo dargli torto; che si tratti di unopera che giunge a cavallo
salta agli occhi e che per fissarla in mente ci si debba barcamenare tra astrazione
e (come dicevamo) fluidit cosa che non
vale neppure la pena di sottolineare.
I pilastrini inclinati, per esempio, un pochino sono fluidi e un pochino sono
astratti ma, in ogni caso, sono meravigliosamente originali (quasi) e, suppongo,
servono a far s che questopera si collochi a perfezione nellurbanistica
romana.
Daltra parte, come dice quel raffinato esegeta di Pio Baldi, se non sinserisce
armoniosamente sinserir per contrasto e se non zuppa,
allora, pan bagnato dal che si deduce che sbagliare impossibile
e anything goes, tutto fa brodo.
In tutto questo flusso di sensazioni fluide, per, ci che va
perso, insieme alla forza strutturante della funzionalit architettonica
(che costituisce la spina dorsale senza la quale essa non esiste) la
capacit dellarchitettura di formarsi e formare il mondo in vista
delluomo, nonch lumilt necessaria a qualsiasi
relazione con laltro che non sia di dominio.
Quel che rimane non solo inadeguato, ma anche, in barba alla
violenza con cui si pretenderebbe di farlo esprimere, incapace
di comunicare altro che la sua volont scenografica. Questo luogo ci
si propone con la stessa cortigianeria leziosa di un rocaille rococ
(forse non sono del tutto fuori luogo i richiami al barocco fatti da qualche
simpaticone): luogo deputato al vernissage e, sospetto, sostanzialmente
pensato per questo.
In tal senso i pilastrini vezzosamente inclinati che accolgono il visitatore
non sono semplice fuffa come si sarebbe portati a credere. Essi sono piuttosto
lululato di riconoscimento del branco e in essi c molto
peggio che semplice idiozia: c la marea montante del vuoto mentale.
In questo genere di produzioni il sensazionalismo non un optional,
ma ci che consente di provocare nellutente oramai anestetizzato
quel sussulto emotivo che d a lui e a chi glielo provoca la sublime
impressione di comunicare e di avere accesso allestasi dellespressione
artistica.
Cos lutilizzatore finale, che non sarebbe in grado di notare
alcuna differenza tra unarchitettura di Kahn o di Mies e la bella villa
che gli ha disegnato il cugino geometra, qui non pu fare a mano di riconoscere
lopera darte.
Tale riconoscimento per non ha alcuna valenza pedagogica (quellutente
persister nellaffidare la sua villa alle cure del primo geometra
che gli promette uno sconto sullaccatastamento) ma sar fondamentale
al rendimento commerciale delloggetto riconosciuto.
Perch larte una bella cosa, ma il mercato il
mercato.
Allora ecco che lopera darte non pu pi continuare
a essere quello che sempre stata per secoli, cio luogo di apertura
infinita alla conoscenza paziente e ambito della sua ineffabile e sempre fuggevole
concretizzazione. Deve trasformarsi e diventare tale da poter essere divulgata
presso il lettore di rotocalchi e il telespettatore e da lui immediatamente
riconosciuta, inequivocabilmente, come Opera dArte.
Allora che unopera darchitettura sia arte senza darlo troppo a
vedere (com sempre accaduto alle architetture e, segnatamente,
a quelle del novecento: Tessenow, Loos, Mies, Le Corbusier, Wright, Aalto ecc.)
non pi tollerabile. Potr, in tutta tranquillit,
intendiamoci, non esserlo (in fin dei conti sono cazzi suoila privacy):
ma dovr assolutamente sembrarlo con tutte le sue forze.
Notevole, in questottica, la questione (da qualcuno timidamente sollevata)
relativa alla contestualizzazione delledificio
della Hadid.
Intanto va detto che la giuria che ha giudicato il concorso deve essersi regolata,
quanto a questo, sulla fiducia. I disegni erano infatti costituiti dal solito
impasto di diagrammi scivolosi che sembrano avere passato al frullatore Tamara
de Lempicka rimettendola in gara sotto forma di filamenti vagamente luminosi.
Quelle scemenze tardo futuriste, insomma, assai appetite da chi, mostrando di
apprezzarle, pu far finta di trottare al guinzaglio dei tempi.
La relazione era ancora meglio.
Un oscuro decotto in cui galleggiavano, presenze inquietanti, titoletti come
Space Vs. Object, Institutional Catalyst, Walls/Not walls, purtroppo
immediatamente spiegati a seguire con uno scilinguagnolo concepito apposta per
gettare nel panico ogni forma dintelligenza.
Questa pietanza, condita di frasi fatte e filosofemi da liceale incallito che
ha letto la prefazione del libro di testo del fratello universitario e ci campa
di rendita fino allesame di stato, ha, comera prevedibile, sbaragliato
ogni resistenza.
Ma per i giurati tutto, evidentemente, funzionava a puntino, il quartiere Flaminio
aspettava da sempre questo manicaretto e sulla via Guido Reni non si sarebbe
potuto concepire di meglio.
A me viene da ridere.
Non (tanto) per levidente dabbenaggine di chi abbocca quando La Hadid
assicura, ammiccando, che The Center for Contemporary Art address
the question of its urban context by maintaining an indexicality to the former
barracks e va a consultare il dizionario per capire che cazzo significa
indexicality scoprendo che vuol dire esattamente il contrario
di quello che dicono i disegni, chiarissimi da questo punto di vista (e quello
che allora poteva capire anche un cieco lo confermano oggi i boccheggiamenti
di questo pesce mezzo asfissiato tra le baracche militari che sembra non vedere
lora di tirarsene fuori definitivamente). No, questo fa parte della stupidit
dei concorsi fasulli nei quali se non vince una superstar non abbiamo
concluso niente (sto cominciando a rivalutare gli incarichi diretti:
almeno la smetteremmo di fornire un alibi culturale ai soliti noti e ce la potremmo
prendere con un politico ignorantevuoi mettere la soddisfazione?)
Quello che invece sorprende ancora una volta la codineria ipocrita
con la quale ciascuno tenta di giustificare lingiustificabile senza assumersi
la responsabilit n di quello che dice n di quello che
fa.
Un architetto, quando si trova davanti al luogo del suo progetto, non inizia
un processo di semplice lettura, comincia invece una danza che
si muove dialetticamente tra lavere e il dare, tra il leggere e lo scrivere:
va immaginando il progetto e, nel medesimo tempo, va immaginando quel luogo
che, pure, ha sotto gli occhi come chiunque altro.
Il progetto, dunque, non un prodotto della lettura del
luogo (concezione schematica e infantile che per anni, tuttavia, stata
spacciata da pi di un professore come verit incontrovertibile)
esso nasce, piuttosto, insieme al luogo stesso, cos come questo va dipanandosi
(quasi come una pittura su rotolo) sotto gli occhi dellarchitetto.
Visione del luogo e visione del progetto devono essere una cosa sola e, in fondo,
per un architetto non ci sono luoghi che preesistano ai suoi progetti.
E il mondo stesso che, per lui, vede la luce con larchitettura
e lui non ne pu prescindere in nessun modo. Ed per questo che
nessuna architettura pu fare a meno del suo luogo. La capacit
dellarchitetto consiste nel lasciarli nascere insieme ma di farlo in
modo che quel luogo e quellarchitettura appaiano una cosa sola.
E sempre stato cos e, per larchitettura, lo sar
sempre. Per questo le grandi architetture vedono la luce insieme al loro luogo:
non prima e neanche dopo.
Per le scenografie, invece, le cose stanno in maniera molto diversa.
E ogni volta sono esterrefatto da come si finga di non vederlo.
Esse, propriamente, non hanno alcun luogo, sono atopiche e non devono rispondere
ad altro che alla immaginazione dellallestitore: e quello
il loro vero luogo.
La fantasia la fa da padrona.
E non si tratta di errore o trascuratezza.
Deve essere precisamente cos.
Perch esse inventano un luogo che non esiste n
mai esister se non, appunto, in un qualche immaginario;
e, daltra parte, per rispondere al meglio al loro destino, devono proprio
inventarlo dal nulla oppure vedrebbero insopportabilmente limitato
il loro carattere produttivo, la loro poiesis.
La scenografia diventa infatti ci che (e, in teatro, sa essere
arte) solo quando si libera fino in fondo da ogni remora mimetica o figurativa,
cio da ogni luogo.
La differenza diviene lampante nel rapporto con la luce: larchitettura
vede la luce e, accogliendola, ne accolta, la scenografia la flette,
piegandola ai suoi fini che sono quelli della rappresentazione.
Larchitetto, dunque, conversa con la luce sapendo bene che la luce trascende
di gran lunga ogni sua pretesa totalizzante, mentre lo scenografo la usa, illusionisticamente,
in vista della sua rappresentazione.
In questa scenografia, per esempio, le lame parallele che corrono in alto sotto
i lucernari servono a poco altro che a creare (anche tramite la declinazione
della luce naturale) leffetto scenografico di fluidit
che , dichiaratamente, il tema dellallestimento.
Gli stessi intradossi di scale, ballatoi e travi, resi luminosi a furia di neon,
hanno questo scopo e non importa se si tratta di una trovata degna di un centro
commerciale o di un supermercato di periferia: leffetto prima di tutto.
Perch non importa niente se la forza di un muro, a teatro,
fatta di cartapesta, n se dietro quella piramide c il
fil di ferro, n muro n piramide sono in questione.
In questione la reazione del fruitore alla scarica di adrenalina.
Perch la scenografia deve puntare dritta alleffetto e non curarsi
daltro perch sa benissimo che qui non , ne sar
mai, in questione la vita bens la sua semplice rappresentazione.
Sta qui la forza dirompente della domanda loosiana sulla nascita e la morte
in una camera da letto art nouveau, dietro la quale c
la comprensione del senso profondo dellarchitettura e la consapevolezza
e lorrore per la sua spoliazione, non una semplice idiosincrasia nei
confronti degli arredamenti di Olbrich o di Van de Velde.
E lo stesso vale per la decorazione identificata come un crimine e per la violenta
requisitoria contro i materiali finti, tutte cose equivocate spesso
come moralismo: mentre anche qui la vera questione riguardava
il senso dellarchitettura, non il suo essere pi o meno comme
il faut.
Non si tratta di unarchitettura meno volgare o pi onesta, ma
di unarchitettura che, in primo luogo, sia tale. Perch larchitettura
non ci che appare n ci che ci pare, essa
ci che (anzi, se parlasse la nostra lingua, potrebbe perfino
dirci Io, carini, non sono e non sar ci che volete che
io sia: io sar quel che sarcome ha detto di se stesso
qualcun altro).
Questo genere di allestimenti, invece, nonostante le petizioni di principio
(del tutto prive di qualsiasi supporto sensatamente verificabile, perch
ogni disegno le contraddice e redatte, per lo pi, ad hoc e a uso di
giurie di concorso sempre assai disponibili) non solo non tengono in alcun conto
della struttura urbana nella quale occasionalmente trovano posto ma, addirittura,
ne presuppongono la mancanza e, qualora essa tenacemente resista, devono (non
per cattiveria o per stupidit, ma solo per poter semplicemente essere
quello che sono e vogliono essere) fattivamente contribuire alla sua nullificazione.
Devono in altri termini, per sopravvivere come opere darte
e per rappresentarsi come tali, ignorare quella struttura urbana che si
configurata sedimentando lentamente, accettando le secolari trasformazioni dellarchitettura,
che a sua volta accettava a priori quella struttura. Perch adeguarsi
a quel fondale richiede, per forza di cose, un rispetto e una pazienza che annullerebbe
larbitrariet nervosa e iridescente di cui esse non fanno solo
un vanto ma che individuano giustamente come loro carattere primario.
Lallestimento iperattuale non pu prevedere, infatti, alcuna forma
di compromesso verso qualcosa che lo trascenda perch esso si pone come
elemento di decisione assoluta alla quale tutto il resto si deve adeguare. Perci
ridicolo mettersi a discutere di contestualizzazione
poich, per contestualizzarsi, occorre relazionarsi e per relazionarsi
necessaria disponibilit al dialogo e capacit di mettersi
in discussione e di mettere in discussione ogni stile preconfezionato
per il mercato dellarte. Larchitettura moderna aveva, nella sua
rinuncia allo stile, fatto della capacit di relazionarsi
uno dei suoi capisaldi, forse il pi importante, perch, attraverso
quella rinuncia, si apriva al possibile e al dialogo con il presente.
Con liperattuale si cassa questapertura e si capisce il perch:
lindividuazione, la personalizzazione, il marchio di fabbrica sono diventati
prioritari e non possono essere messi a rischio. Senza quel logo, infatti, non
esisterebbero n Zaha Hadid, n Koolhaas, n Libeskind,
come non esisterebbero Armani, Versace e Kelvin Klein.
Nessuna contestualizzazione pensabile se, come primo gesto di ogni
progettazione, io devo autenticarmi come creatore originale contro
quel contesto nel quale fatalmente potrei mettere in gioco la mia stessa originalit
(se il mio gioco non fosse truccato).
La stessa cosa vale per la funzione.
Il Kimbell di Kahn, il museo a crescita illimitata di Corbu e il Guggenheim
di Wright funzionano perch, nella mirabile diversit che li contraddistingue,
nascono, tutti e tre, in funzione. Non prendono a pretesto una
committenza intimidita e molle per imporre creativit a
bizzeffe, essi si costruiscono costruendo una funzione, si configurano concretizzando
il loro compito che diviene il loro nome e il loro destino.
Certo anche il loro stile, infine, inequivocabile ma
raggiunto e non imposto.
In questo genere di allestimenti, viceversa, la funzione (nome, cifra e destino
dellarchitettura e unica sua ragione di esistere) agonizza e muore male,
perch tutto (e deve essere, perch ne
va della sopravvivenza del loro logo, di gran lunga la cosa pi importante,
lunica che li stare sul mercato) finalizzato a nasconderla.
Ci che il moderno aveva eletto a programma (che una casa o una fabbrica
non fingessero di essere un tempio) viene effettivamente negato e si ritorna
allindifferenza beaux-arts nei confronti della funzione. Ma mentre la
vecchia accademia, triangolando ancora nellambito della triade Vitruviana,
riteneva necessario appoggiarsi a unimmagine ancora architettonica
(cosa che, del resto, le era imposta anche da una tecnica costruttiva ancora
tradizionale e, per cos dire, non emancipata) questi accademici
iperattuali si liberano, grazie ad una pratica ingegneristica compiacente e
follemente anabolizzata a furia di milioni, anche da questultima necessit.
Quello che essi mettono in discussione non dunque il fatto che un edificio
dichiari apertamente la sua funzione bens, in modo pi radicale,
che un edificio appaia tale.
Ci che essi, in altri termini, negano allarchitettura
il suo presentarsi come architettura.
Essa, per giustificarsi come opera darte deve, nei loro
allestimenti, rappresentarsi libera da ogni remora miseramente
funzionale ma poich questo impossibile, la finzione va, almeno,
mimata scenograficamente.
Rampe, scale, vetrate, pilastri e travature del tutto insussistenti dal punto
di vista funzionale fluidificheranno lo spazio e lo renderanno
adatto a quel godimento estatica che si qualifica come lo stadio
iperattuale di quella percezione distratta individuata da Walter
Benjamin.
Solo che cos facendo si violenta il nucleo pi segreto dellarchitettura
e se ne asporta il senso.
La violenza con cui questi stilisti stuprano la costruzione fino al parossismo
deriva sempre dal tentativo di strappare larchitettura al suo senso mutandola
in qualcosaltro.
Non importa il modo, ci che conta tirarsi fuori dalla regola
ferrea che impone ad ogni architettura di rispondere alla chiamata della sua
funzione come ad un destino.
Questo edificio, lo sappiamo tutti, non un museo, al pi (e
nel migliore dei casi) accondiscender, molto di malavoglia, ad esserlo.
Cetaceo arenato sulla spiaggia del tempo verr immesso a tranci nel mercato
dellarte, e venduto a peso al migliore offerente come istallazione
a scala gigantesca: come tale sar recepito, commentato e fruito.
* * *
Resta per unultima cosa, che sarebbe stata la pi facile
da notare e che invece i nostri critici sembrano non avere neanche subodorato.
Questo macchinoso accrocco amaramente, definitivamente, sconsolatamente
outdated.
Fuori tempo massimo e ahim, anche fuori moda (che per un oggetto di
haute couture , direi, fatale). Basta collegarsi alla rete e aggiornarsi
sullo stato dellarte che questarca immane ci appare come un relitto
spaventoso di epoche preistoriche di cui ormai non siamo in grado di capire
bene, se non per proiezione storica, nemmeno le funzioni primarie.
Se, nella massa obesa di Roma, gli si pu assegnare un ruolo (ecco un
modo per contestualizzarlo) quello di funzionare a perfezione
come lente dingrandimento. Infatti, non si pu negare questo straordinario
risultato urbanistico-culturale: grazie a questo coso il contenitore dellAra
Pacis e la chiesa di Meier oggi rifulgono di nuova luce e, nobilmente, giganteggiano
sotto il sole romanolauditorium di Piano, magari, un po
meno per, al confronto, ci fa pur sempre la sua porca figura.
Il suo futuro da depliant per gite turistiche, ad ogni modo, gi
passato da un pezzo.
I Jetsons sono diventati Flinstones ma i critici darchitettura non se
ne sono accorti e continuano, come le scimmiette meccaniche, a battere le mani.
Finir che, come al solito, dovranno togliergli le pile per farli smettere.
Se ne vanno in giro con il loro bicchiere (mezzo pieno) tra i salatini del vernissage
in attesa della prima portata e ancora non hanno capito che non ci sono pi
scorte e le derrate sono esaurite.
Li guardo, con la loro cravatta allentata come quella di Umberto Bossi, e mi
mettono addosso la stessa tristezza delle rotonde sul mare a febbraio, quando
lunica cosa che ci trovi sono le cacate dei gabbiani.
Questa cosa puzza di cadavere lontano un miglio, una carcassa arenata
sulla spiaggia, talmente datata che sembra gi una bestia estinta e per
rendersene conto non neppure necessario essere esperti di economia
politica e neppure di architettura, basta lasciar perdere Minzolini, sintonizzarsi
su radio Londra e sentire che cosa sta succedendo.
Tra un po si dovranno approntare dei contenitori adeguati per le scorie
edilizie (radioattive) di questi ultimi ventanni di ubriacatura iperattuale
i cui costi sono stati spaventosi, dal punto di vista economico, certo, ma soprattutto
da quello culturale. Se gi difficile computare iI debito pubblico
i cervelli in poltiglia sfuggono a ogni tentativo di censimento: non ci sono
numeri che bastino a quantificarli. E stata peggio di una guerra atomica,
solo che gli architetti lhanno condotta in salotto a furia di brindisi
e tartine al caviale.
E alla fine, vigliaccamente, non gli resta che sperare che a pagare il conto
sia qualcun altro.
(Ugo Rosa - 8/11/2010)
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Commento 9129 di Antonino Saggio del 08/11/2010
Leggiamo, anche se non proprio tutto, quest'articolo. Ma bisogna guardare dritti dritti e davanti. Se volete qui http://antoninosaggio.blogspot.com/2009... se ne era discusso
Tutti i commenti di Antonino Saggio
Commento 9130 di vilma torselli del 08/11/2010
Questo http://dailymotion.virgilio.it/video... un divertente Sgarbi-show che forse sfuggito a Ugo Rosa.
Tutti i commenti di vilma torselli
Commento 9134 di vilma torselli del 10/11/2010
Per Antonino Saggio.
Premettendo che condivido ci che scrive nellarticolo da lei stesso citato, mi pare vadano aggiunte alcune considerazioni:
Lidea di un museo autosostenibile, che si autofinanzi con introiti propri mi pare assolutamente normale per quei musei americani, circa ventimila, la quasi totalit dei musei sul territorio, che non sono statali, ma sono stati pensati, costruiti e riempiti da privati: dal Getty Museum al Whitney Museum ai vari Guggenheim, che hanno dato casa ai transfughi surrealisti europei monopolizzandone le opere e creando da zero lespressionismo astratto americano, ai vari Rothschild, che ne hanno esposto nelle loro sedi bancarie 2500 esemplari, ai Castelli ecc.
Cito dalla rete www.sindromedistendhal.com/LaLente... I nostri musei hanno ben poco in comune con quelli americani. Sia da un punto di vista istituzionale, gestionale ed amministrativo, sia sotto lottica pi strettamente legata alla funzione culturale del museo. Negli ultimi anni si deve al noto studioso e direttore della Normale di Pisa Salvatore Settis un impegno attento e appassionato sullargomento. Ne sono testimonianza due importanti libri (Italia S.pa. pubblicato da Einaudi nel 2003 e Battaglia senza eroi. I beni culturali tra istituzioni e profitto, una raccolta di articoli e interviste, edizione Electa -2005), numerosi interventi su giornali e riviste specializzate ed infine la recente nomina a presidente del Consiglio Superiore per i Beni Culturali.
Settis impegnato a dimostrare, innanzitutto, che primo ostacolo allapplicazione del modello americano in Italia una profonda differenza ontologica tra musei italiani e statunitensi.
Personalmente, forse perch non sono americana, penso che la cultura, come la scuola, debba/possa essere gratuita o anche onerosa, penso che i musei non dovrebbero far pagare il biglietto dingresso, che i depliant e il materiale divulgativo sulle iniziative in corso dovrebbero essere regalati ed offerti gratis ai visitatori perch meglio comprendano (un catalogo che costa 50 euro non alla portata di tutti, delle orrende tazzine con su scritto Tamara de Lempika sono inutili, portano soldi allorganizzazione ma non diffondono cultura).
Oggi Guggenheim una griffe come Prada e Armani, un marchio diffuso nel mondo, a New York a Bilbao a Venezia a Berlino (dove in joint-venture con Deutsche Bank), una vera e propria multinazionale dellarte che gestisce la totalit delle opere del 900, dal Surrealismo al Cubismo, all'Astrattismo alla Pop Art.
Parallelamente gestisce anche un enorme bilancio per ci che riguarda lindotto, vendita di cataloghi, di riproduzioni, gadget firmati, shop museum, guggenheim store, caf museum ecc.
Una recente invenzione, che ottimizza la gestione economica e si inquadra in un crescente processo di McDonaldizzazione della cultura cosiddetta globale (nel senso che offre tutto a tutti in modo indifferenziato) quella delle mostre itineranti (mostra sulla Bauhaus che passa da Berlino a New York, di Tiffany tra Parigi e Montreal, di Hopper da Milano a Roma a Losanna, della mostra sul Futurismo, quella su Hans Hartung ecc.), un unico pacchetto preconfezionato che si sposta da Milano a Roma, dalla Francia alla Germania, con unorganizzazione controllata, efficiente, prevedibile, asservita alla logica di mercato che governa oggi molti fenomeni sociali e culturali (dall'alimentazione al lavoro al tempo libero) .
Sarebbe pensabile e possibile un tale sistema in Italia? Una famiglia ricca e potente che fa incetta di opere e gestisce una catena di musei senza chiedere finanziamenti statali e proponendo una sua libera offerta culturale? Non so se auspicabile, ma forse, e il MAXXI potrebbe esserne l'occasione, non da escludere, confidando nel fatto che il supermanager Mario Resca, consigliere del ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi, anche lex presidente di McDonalds Italia. Non ci resta che aspettare.
Il 3 giugno 2009 viene inaugurato a Venezia il museo Vedova, modesto, piccolo, costa solo 1,5 milioni di euro, il primo museo in movimento dedicato a trenta tele di un solo artista italiano, dove le tele del grande artista veneziano vengono esposte per mezzo di una struttura meccanica che con un movimento circolare le trasporta dal magazzino, in cui sono conservate, nella sala dove gli spettatori possono ammirarle mentre galleggiano nellaria.
www.veneziasi.it/it/musei-gallerie-venezia...
E una novit, anche dal punto dello sfruttamento ottimale degli spazi, la tecnologia semplice ma efficace, bellidea, forse Elizabeth Diller lavrebbe o lha apprezzata, qui in Italia nessuno ha fatto una piega.
Voglio dire, per chi vive nella realt di un paese come lItalia, dove, ahim, ha trovato casa il MAXXI, Elizabeth Diller ha inventato lacqua calda.
cordiali saluti
Tutti i commenti di vilma torselli
Commento 9137 di maurizio zappal del 17/11/2010
x Ugo.
La generazione dei tiralinee di cui io e Ugo facciamo parte quella che, secondo me, ha subito uno shock antropotecnologico senza precedente! Ora, sarebbe sicuramente noioso ed inutile ribattere lamico Ugo sui massimi sistemi di pensiero, perch non ne verremmo a capo. E ovvio che, non si possa fare a meno di sottolineare la nostra (mia e di Ugo!) divergenza sull'idea di Rivoluzione tecnologica. Non so e non voglio derimere sullarchitettura ma sulle emozioni che questa imprime, si. Laccanimento sui formalismi architettonici mi sembra molto riduttivo e anacronistico, ad un Ugo terragnomi offro come alternativo "acquifero"! Sai Ugo, da tempo ho smesso gli abiti degli avi come i pantaloni a zampa di elefante o peggio, leskimo! Devo confessarti che non mi emozionano pi e vesto da molto tempo alla matrix, molto pi tecnologico e figlio dei nostri tempi e forse anche demod, perch gi pronto il tessuto nanotecnologico che rende palombari. Su questo credo sia venuto il momento di mettersi daccordo! C un tempo in cui si debba fare i conti con ci che non capiamo ma viviamo! E se non si capisce che la statica tettonica cambiata riporteremo sempre i pesi a terra. Ora piacciano o no le cose che fanno moltissimi architetti che si cimentano con la nuova architettura, fondamentalmente ci che mi pare cogliere in taglio a questo argomento questo: emoziona il Guggenheim di Frank Gehry tanto quello di Frank Lloyd Wright, costi quel che costi? Il costo lasciamolo allalta scienza dei ragionieri! A me pare che il nostro tempo sia talmente pervaso dalla tecnica che linnovazione antropologica del secolo scorso, incanti e meravigli gli intelligenti e preoccupi gli insegnanti che non hanno confidenza con la materia. La simultaneit delle informazioni (oggi), fa s che dal mondo ci appaia larretratezza delle novit culturali; tuttavia, difficile negare che le nuove tecnologie abbiano innescato potenzialit creative equivalenti a una sorta di mixer alimentato simultaneamente dalle attivit di una bottega artistica quasi rinascimentale e dalle progettualit di un movimento che potremmo definire davanguardia. Nonostante ci, si ha limpressione che davanti non ci sia pi spazio e che si possa lavorare solo sul passato, sulleredit o sulle rovine di quanto rimasto dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura, dellarchitettura e delle arti dalla fine del XIX secolo come gi (o appena) trentanni fa ebbe a scrivere Lyotard per introdurre la condition postmoderne. E cos che, alle metafore architettoniche (di Ugo!), per loro natura statiche, un certo Hegel, contrapponeva quelle nautiche o comunque relative a percorsi tormentati. Oggi come ieri e domani, larchitettura un viaggio di scoperta (memore di Le Corb o di Khan!) con un appeal contemporaneo che non pu essere quello di mio nonno!Non pi unapplicazione di regole o stilemi, di norme e falso naturismo, di dilemma forma/funzione! Lapparente omologazione che rintraccia Ugo mi sembra debole, della debolezza di colui che vuole mantenere a tutti i costi il suo arroccamento, sbrizziato qua e la di novelle cultura protoanticonformista. Di quelli che Libeskind fa cose storte che potrebbero essere benissimo dritte! Certo che anche il Colosseo avrebbero potuto farlo, i Romani, rotondo! Insomma, rintraccio un pressappochismo micidiale e rigido a cogliere il cambiamento, proponendo modelli vintage come conforto dellanimo/specchio! Cosa c in giro, un virus deformante o una considerazione nana della possibilit di sdoganare la triade Vitruviana? Quando pensano, i neolitici che accadr il grande passaggio allera futura? Quando, abbandoneranno la convinzione di poter controllare lo strumento fino a determinare il processo di trasfigurazione? Stare dalla parte della contemporaneit non vuol dire omologarsi o compiacersi di ogni cagata di Zaha, di Gehry o che so io, di Siza, di Moneo! Che da domani, i tiralinee, progetteranno come i sopracitati, mi sembra molto improbabile! Perch un fattore decisivo in gioco proprio quel rapporto tra produzione e ricezione, kantianamente tra gusto e genio, che definisce la dimensione estetica come un ambito in cui qualcosa come la coscienza entra in relazione necessaria con lopera, quel segno, copia di unorigine, che resta fenomeno presente, apparente. In cui la relazione tra il segno e lintelligenza del segno passa per leco provocata dallurto della sensazione: il fantasma dellopera. Lambito tecnico-produttivo d infatti origine, imitando la potenza generativa della natura, ad immagini; nel far questo rimette lapparenza alla sua costitutiva ambiguit, la rende fenomeno da salvare. Di questo mi pare qualcuno abbia una paura spaventosa e torna sempre allovvio e scontato, al vetusto argomento dellidentit perduta che gli toccano la tasca, tutto un po social/gatto/comunista! Cosa posso dire altro, caro Ugo, mi sono emozionato dentro/fuori Wright pensando al passato altrettanto mi sono emozionato dentro/fuori Gehry, pensando al futuro. Non mi sono emozionato dentro/fuori la Hadid, dove la manifattura (general-contract italiano!) fa schifo e la progettazione della luce scadentissima! Ah, siccome darchitettura non se ne parla, di Adorno musicologo insigne, poche cose mi rimangono in mente Una che era sempre sotto scopa di Benjamin; due che non amava il jazz e lo definiva espressione di moda ! Insopportabile.
Tutti i commenti di maurizio zappal
Commento 9141 di alessio lenzarini del 26/11/2010
Prescindendo dall'articolo di Ugo Rosa (ironico e simpatico fin che si vuole ma irrimediabilmente nichilista e reazionario) e parlando invece di architettura, colgo l'occasione per sollevare una domanda: perch quando si parla e si scrive del Maxxi, per celebrarlo o per stroncarlo, nessuno ricorda mai che si tratta di un progetto di cui stata realizzata soltanto una parte e che rimane pertanto palesemente mozzato e incompiuto? Questo aspetto mi sembra imprescindibile per qualsivoglia lettura critica del progetto, almeno per tre motivi:
- rispetto a tanti altri progetti di Hadid, magari pi oggettualmente scultorei, il progetto del Maxxi propone il suggestivo tema dei flussi spaziali: tema che tuttavia necessita di un sufficiente grado di reiterazione-proliferazione altrimenti rimane depotenziato. Tutto l'interesse dovrebbe nascere dall'esperienza della complessit spaziale e della circolazione intrecciata, dalla percezione labirintica dei flussi spaziali. Era un tema rigorosamente quantitativo che, realizzato a met, perde met del suo interesse nel solo sfoggio qualitativo: meno flussi = meno complessit. Per non parlare della presenza di un flusso-percorso che si interrompe bruscamente perch manca la parte di progetto in cui doveva proseguire...
- il tema dei flussi spaziali poteva avere una grande valenza urbana: il Maxxi non voleva essere un edificio volumetricamente circoscritto bens la saturazione interstiziale di un'area urbana con flussi spaziali di percorrenza, che tali potevano e dovevano rimanere anche a livello strada. Realizzare met edificio gli ha tolto ogni carattere di brulicante densit, perdendo il valore di saturazione interstiziale a favore di una semplice esibizione di volumetria: volumetria, peraltro, nemmeno tanto interessante, perch pensata per essere altro. Recintare l'area del Maxxi, ha poi definitivamente tolto ai flussi ogni implicazione di attraversamento urbano.
- il tema dei flussi spaziali vuole instaurare una affascinante corrispondenza spazio-fruitiva con le modalit dell'allestimento museografico: lungi ovviamente dal proporsi come contenitore neutrale e quindi facilmente allestibile, il Maxxi pretende di interagire costruttivamente con l'attivit museografica che si svolger al suo interno. I flussi spaziali chiedono di essere reinterpretati al variare delle esigenze espositive: un evento per ogni flusso, gli snodi tra i flussi come snodi tematici fra diversi eventi correlati, l'intrecciarsi dei flussi come diramazioni tematicamente diversificate dello stesso evento etc etc. Il Maxxi ambirebbe a divenire un interessante esempio di connubio interattivo tra contenitore e contenuto, da reinventare concettualmente ad ogni mostra: purtroppo, anche sotto il profilo museografico, la minore reiterazione-proliferazione dei flussi irrigidisce le potenzialit di interazione espositiva.
Tutti i commenti di alessio lenzarini
Commento 9142 di pietro pagliardini del 29/11/2010
Non ho letto l'articolo. Ho letto per il commento di Maurizio Zappal, sempre da superuomo, sempre sotto effetto di stimoli forti, sempre appassionato, sincero e, appunto, stimolante.
Vorrei fare una domanda, semplice semplice a Maurizio, appartenendo io alla categoria dei neolitici, secondo la sua divertente definizione. Ma chiss se vale la pena rispondere ai neolitici?
Tu dici Maurizio: "Quando pensano, i neolitici che accadr il grande passaggio allera futura?".
La mia domanda questa: perch DEVE accadere questo passaggio?
Tutto qui.
Ciao
Pietro
Tutti i commenti di pietro pagliardini
Commento 9143 di vilma torselli del 30/11/2010
Egregio Lenzarini, mi permetto una breve replica.
Anche se qualcuno si ricordasse che il progetto del Maxxi incompiuto, ci non cambierebbe le eventuali critiche, specie quelle negative: un progetto incompiuto e mozzato un progetto fallito, indipendentemente da chi si possa caricare della colpa, o dellinavvedutezza, o dellincapacit alla base del risultato. Voglio dire, riusciamo ad immaginarci il colonnato del Bernini realizzato per met? Colpa del progettista, del papa o di chiunque altro, sarebbe una scempiaggine e basta!
La lettura diagrammatica (cos la chiamano) del progetto secondo i flussi di espansione dei fluidi, (http://www.plancton.com/genart/inarch04/Ciclo_acqua.pdf) con tanto di restringimenti, deviazioni e pozzanghere (cos le chiamano) informative senzaltro affascinante, quasi romantica: come non ricordare Zygmunt Bauman e la sua societ liquida, dove anche la modernit liquida, un tipo di modernit individualizzato, privatizzato, in cui l'onere di tesserne l'ordito e la responsabilit del fallimento ricadono principalmente sulle spalle dell'individuo" (Z. Bauman, Modernit liquida, 2002)?
E una condizione storica, culturale e soprattutto umana, la liquidit, quella stessa che permette di incanalare in flussi sia i fluidi che le persone, entrambi incapaci di mantenere una forma in mancanza di coesione propria. Vite di scarto, persone di scarto, arte di scarto, musei di scarto, mutevoli, effimeri, senza domani .
Ma tornando al Maxxi e alla sua affascinante corrispondenza spazio-fruitiva con le modalit dell'allestimento museografico: lungi ovviamente dal proporsi come contenitore neutrale e quindi facilmente allestibile, il Maxxi pretende di interagire costruttivamente con l'attivit museografica che si svolger al suo interno.
Compito non facile, a giudicare dallallestimento iniziale, dove sculture, dipinti e installazioni dispiegano la loro bulimia a muoversi e a rapportarsi con la nuova liquidit territoriale del comunicare architettonico. Affidate attraverso la mano dei curatori ad un nuovo continente senza confini tradizionali vagano e perdono ogni ancoraggio. Sono fantasmi dispersi e sconcertati che si scontrano e si sovrappongono senza una logica, perch nel mondo della rete aperta e dei flussi dinamici non sussiste n storia n tema. Cos il tentativo di isolare gruppi di lavori d'arte, raccogliendoli sotto titoli [] risulta astratto e inutile. Rende superficiali certi insiemi [..] oppure scardina l'impatto mitico di certi interventi [..]. Di fatto questa riduzione di prestazione artistica il risultato di una contraddizione. Contrappone la fluidit architettonica ad una pratica statica e passiva, decisamente storica: quella del museo, dove conta l'accumulo, cronologico e linguistico, non la comunicazione. Una schizofrenia tra il compito di collezionare il passato e di proiettarsi nel futuro che produce un procedere ibrido su cui riflettere al fine di non rovinare la funzione dell'istituzione. [] Avendo progettato un'architettura senza confini n territori privilegiati, un corpo quasi sferico in cui tanto le irradiazioni quanto le prospettive non sono riferimento, ma indici erranti di una superficie totale, Hadid ha sollecitato l'affermazione di un'estetica pluralista, che volge lo sguardo a tutti i possibili stimoli dall'Asia all'Africa, dalle Americhe all'India: un invito alla rimozione del locale e nazionale, per un'apertura alla mondializzazione. E qui si concretizza un'altra dicotomia del nuovo museo che manifesta intenti globali, ma sollecitato a rivolgere la sua attenzione alla dimensione interiore, quella dell'arte italiana, augurandosi una sua potenzialit internazionale. Cos Germano Celant, Maxxi caos sullEspresso e La repubblica del 3 giugno 2010.
Larticolo di Celant smonta facilmente alcune non scontate prese di posizione:
- che larte moderna debba necessariamente essere esposta in un museo moderno
- che lagibilit per flussi sia automaticamente pi intelligente di quella per percorsi
- che i flussi spaziali possano essere reinterpretati al variare delle esigenze espositive secondo una flessibilit parallela tra contenente e contenuto che non pare cos agevolmente attuabile, come dimostra linsoddisfacente esposizione di apertura.
Su queste scelte di fondo lincompiutezza della struttura ha scarsa rilevanza, anzi, la compiutezza forse accentuerebbe le incongruenze.
Tutti i commenti di vilma torselli
Commento 9144 di maurizio zappal del 30/11/2010
Pietro, quanti Flintstones vedi per la strada?Stai progettando comode "caverne", insieme a Krier? Mi sembra che la vita non sia un "fermo immagine"! Ti pare?
mah!
Tutti i commenti di maurizio zappal
Commento 9147 di pietro pagliardini del 04/12/2010
No Maurizio, mi spiace ma questa non una risposta. Non a me, che non ha alcuna importanza, ma al perch della cosa, alle motivazioni vere.
la relazione auto-casa, abiti-casa non regge, per molti motivi, uno ad esempio che i beni di consumo seguono solo le legge del consumo, del mercato. Tra le auto di oggi e quelle di un anno fa non c' alcuna differenza sostanziale, solo optional di nessuna utilit reale ma utilissimi a vendere.
Per gli abiti poi, se fai bene attenzione, non cambiato quasi niente, nella sostanza da secoli.
Ma la casa non bene di consumo. A meno che tu non pensi che lo sia, nel qual caso la tua una risposta, da me non condivisa, ma una motivazione.
Ciao
Pietro
Tutti i commenti di pietro pagliardini
Commento 9149 di salvatore d'agostino del 07/12/2010
Ugo,
condivido il 20% di ci che dici.
Prima di disarticolare i miei pensieri, vorrei farti una domanda: Che cosa significa funzione per un museo darte contemporanea (non minteressano le tue considerazioni sullarte)? Qual la funzione (parola che hai ripetuto dieci volte)? Che cos la funzione (tecnicamente in questo caso)?
Saluti,
Salvatore DAgostino
Tutti i commenti di salvatore d'agostino
Commento 9152 di Ugo Rosa del 10/12/2010
Ugo Rosa risponde a S. D'Agostino
Funzionare, v. intr. (funziono ecc.; aus. Avere)
1. Essere in grado o nell’atto di corrispondere alle esigenze specifiche determinanti della propria struttura od organizzazione: la macchina ha cessato di f. ; l’ufficio non funziona più come prima | Rendere in modo soddisfacente: occorre sempre un po’ di tempo perché un nuovo metodo cominci a f.
2. Esercitare una funzione, fungere: f. da segretario | Celebrare (in ambito liturgico): oggi funziona il vescovo.
Così il Devoto-Oli.
Quanto all’etimologia ci si attesta comunemente su quella che fa derivare la parola da functus, participio passato di fungi (fungor, eris, functus sum fungi): conduco a termine; adempio, eseguo, compio, sopporto.
Funziona, dunque, ciò che risponde al compito per cui è stato messo in atto e vi risponde nel modo più adeguato.
Una penna deve scrivere. Ma non basta ancora che scriva perché “funzioni”. E’ necessario, per esempio, che la sua scrittura non richieda, per essere messa in atto, l’uso di sangue umano, di oro liquido o di inchiostri a base di uranio impoverito, che non pesi sei chili e che abbia dimensioni inferiori a quelle di un missile terra-aria.
Quando chiunque disponga delle mani e sia in grado di usarle potrà scrivere a costi economici e in maniera agevole, potremo dire di avere una penna che, effettivamente, funziona.
Poi, naturalmente, avremo penne più o meno belle e, anche, più o meno costose, ma affinché la penna continui a “funzionare” dovremo rimanere sempre dentro un paradigma che sappia declinare bellezza, costo e capacità di servire in termini tra loro adeguati.
Se una penna costa un miliardo sarà, forse, una curiosità da baraccone, ma perde una delle caratteristiche che ne fanno uno strumento di scrittura utilizzabile.
Per gli edifici le cose non stanno diversamente.
Un edificio funziona quando risponde al compito per cui è stato costruito e vi risponde nel modo più adeguato e a costi complessivi (di costruzione e di gestione) sensati.
Ciò che non funziona soltanto ma “ha da funzionare” (un artefatto, cioè, qualcosa che non funziona “solo per caso”) viene infatti progettato e costruito “in funzione”.
Un ospedale è pensato e costruito “in funzione” dei malati che dovrà ospitare, un’abitazione “in funzione” degli abitatori ecc; una sala espositiva deve esserlo “in funzione” delle opere che vi saranno esposte o, più precisamente, “in funzione” del migliore dei rapporti possibili tra l’opera e chi la contempla.
Noto, per inciso, che un museo nato per esporre l’arte del XX secolo risponde ad un’esigenza che proprio l’arte del secolo scorso ha avanzato per la prima volta: quella di un luogo fruibile a piacimento (spesso a pagamento) e votato ad ospitarla e a metterla “in mostra”.
Prima della nascita dell’arte moderna questa esigenza non esisteva.
Né Giotto, né Raffaello, né Leonardo hanno dipinto per far mostre pubbliche e sarebbe divertente immaginare la reazione di Andrej Rublev se gli avessero predetto che l’icona della Trinità, un giorno, sarebbe diventata un poster per pubblicizzare il panettone, Picasso, Modigliani, Van Gogh e Matisse, invece, puntavano, fin dalla prima pennellata, alla galleria d’arte e all’esposizione e quello auspicavano.
Ma ciò non è importante se non per sottolineare che, se qualche opera mai si dovesse trovare a sua agio in un museo (cosa della quale ho sempre dubitato e continuo a dubitare) quella sarebbe proprio un’opera di arte moderna, l’altra infatti ci sta, per definizione, malgré elle.
Parlare dunque di un “museo d’arte moderna” non è dunque trattare di un raro caso specialistico bisognoso di raffinatissime alchimie tecnico-mentali ma è quasi una tautologia giacché è proprio questo il solo caso in cui il museo ospita opere che sono nate esattamente per esservi ospitate.
Definizioni come sala espositiva, museo ecc. racchiudono, com’è noto, un significato che, in qualche modo, si pone a metà strada tra quello della parola “obitorio” e quello della parola “bordello”: vi si reca a pagamento per provare piacere e vi si trovano oggetti (o corpi) che, presumibilmente sottratti a quelle che dovevano essere le loro precedenti condizioni, vanno immagazzinati in condizioni adeguate alla loro conservazione.
Un museo, come un obitorio, dovrà far sì che i corpi vengano preservati almeno nelle condizioni in cui si trovavano al momento di essere immagazzinati ma, come un bordello, dovrà altresì esporre tali corpi nella maniera più avvenente e redditizia.
Bisognerà tuttavia convenire che la modalità di fruizione dell’oggetto esposto in un museo è differente da quella dell’oggetto esposto in un bordello.
Nel primo caso “si contempla”, nel secondo (in genere) non si contempla soltanto … ma anche nel caso in cui il fruitore desideri esclusivamente contemplare (de gustibus…) sarebbe lo stesso esplicarsi di tale contemplazione che presenterebbe esigenze differenti.
Nel bordello il contemplatore è, comunque ,un caso limite, nel museo è la norma.
Dunque, contrariamente a quanto avviene al bordello, occorre che il museo, per funzionare, offra in primo luogo condizioni contemplative adeguate all’oggetto in mostra e non intese come mero passaggio verso altri tipi di rapporto.
Proprio le esigenze “di pura contemplazione” del museo, infatti, richiedono che essa avvenga in condizioni assolutamente ottimali e che l’oggetto contemplato (non avendo altre possibilità di relazionarsi al fruitore che non può intrattenere con esso altro genere di “commercio”) si offra interamente e nel migliore dei modi.
Non è il caso di entrare nei dettagli di questo tipo di relazione (definita dagli esperti “estetica”) ma si può dire che è universalmente accettato il fatto che essa possa esplicarsi nel migliore dei modi soltanto in condizioni di raccoglimento e in situazioni tali da fornire il minimo possibile di disturbi ambientali.
Controllo dell’illuminazione e dei rumori sono, fondamentali. Va evitato l’inquinamento acustico e quello luminoso ma, ancora più importante è che sia accuratamente evitato ogni inquinamento “visivo”, dal momento che il museo è votato ad opere che proprio al senso della vista si rivolgono.
Un museo dunque “funziona” quando tali condizioni sono rispettate e si dispongono, tutte insieme e appassionatamente, a far si che tra il visitatore e l’opera si stabilisca un rapporto quanto più intenso e “raccolto” possibile.
La radice della parola Musa è indo-germanica: man (pensare) da cui mens ma anche mania (cioè turbamento della mente). Il museo è perciò un luogo nel quale si pensa (talvolta fino alla mania…) e nel quale il nucleo di tale pensare è costituito dall’opera d’arte della quale il visitatore si trova in presenza.
Nessun museo, come dicevo, funziona se tale rapporto è inquinato da elementi visivi o uditivi estranei. Non importa se questo elemento inquinante sia il comunicato commerciale e il jingle pubblicitario diffuso dall’altoparlante oppure l’ego dell’architetto che si sovrappone scioccamente e chiassosamente al rapporto tra l’opera e il visitatore.
Peggio ancora se l’ego dell’architetto assume connotati inequivocabilmente pubblicitari e diventa firma o, meglio, logo.
Questo, dunque, per quanto riguarda la funzione e il funzionare.
A parte un invito.
Albert Einstein amava quelli che definiva “esperimenti mentali” e che sono, per l’appunto, dei piccoli esperimenti diretti a confermare o falsificare una certa ipotesi.
Essi hanno il vantaggio di non costar nulla e di non richiedere altro che un pochino di immaginazione.
Io, a conferma di quanto ho appena scritto, invito tutti a questo piccolo esperimento.
1) Postulato: l’architetto non fa quello che vuole, quando vuole, come vuole e dove vuole ma solo quello che può, quando può, come può e dove può.
2) Conseguenza: l’architetto esegue i desiderata della committenza e, se è degno di essere definito tale, deve essere in grado di progettare con uguale sensibilità e competenza qualsiasi tema “funzionale” la committenza gli richieda, dal canile alla città.
3) Esperimento: provate ora a immaginare un padiglione per malati terminali di cancro progettato “à la Gehry” ( oppure à la Hadid, o, meglio ancora, à la Libeskind…insomma una cosa divertente, spigliata, avventurosa, firmat
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Commento 9153 di vilma torselli del 10/12/2010
solo una breve intromissione in una tenzone che promette di essere interessante: Ugo dice "provate ora a immaginare un padiglione per malati terminali di cancro progettato la Gehry".
Non occorre immaginare, guardate qua
http://www.mrflock.com/eventi/lou-ruvo-center-incredibile-architettura-di-frank-gehry.html
un centro di salute mentale (si fa per dire) specializzato nella cura di malattie come lAlzheimer, il Parkinson, la SLA, progettato da Gehry.
Ogni commento superfluo.
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Commento 9207 di maurizio zappal del 17/12/2010
for Pietro.
Rispondo o non rispondo?
Motivo o non motivo?
Leggo o non sono letto?
Consumo o non consumo?
Abitare o abito?
E da qui partiamo...Si, ribadisco che l'architettura, a mio avviso, non la menata che ci hanno propinato a scuola: funzione o forma?
E' fondamentalmente emozione!Viaggio!
Per cui, arte/architettura /cinema/ abbigliamento sono manifestazioni aptiche (et.: capacit di entrare in contatto con...)senza alcuna nostalgia del passato/passatista che non mi ha dato nulla e che quindi, cerco emozioni, soltanto, al futuro! Consumando e consumandomi fino ad arrivare, forse, quando morir alla mia vera identit!La tua nostalgia per la "casa immobile" nel tempo, il mio transito al futuro!Pietro, non vorrei annoiarti e ti dispenso dal ribattermi, se vuoi, pensa semplicemente che "habitus" e "habitare" hanno un legame semantico. "Abito" un elemento della loro connessione, poich ne condivide la radice latina. Visto che l'habitus inscritto nell'abitare perch non ampliare il paradigma aggiungendo all'equazione anche l'elemento moda?Dare riparo al corpo e vestirlo sono collegati da un vincolo stretto che ti perdi strada facendo stando tu,"immobile"! "Abito" non soltanto un vestito ma anche la prima persona singolare dell'indicativo presente del verbo abitare, usato per indicare il proprio indirizzo che per te via Palladiana n.1. Insomma, anche affascinante pensare nei termini inglesi, address e dress, come fossero i due lati di un tessuto double-face, in una interazione di habitus e habere che tanto definiscono la moda e l'architettura quanto naturalmente il cinema, poich tutti hanno a che fare con il C O N S U M O!
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Commento 9211 di vilma torselli del 19/12/2010
Pietro, larchitettura, nata per rispondere a necessit primarie quali la difesa dai pericoli esterni e dai rigori climatici, riparo ed involucro protettivo per il corpo delluomo con la stessa funzione di un 'abito' vero e proprio, secondo Gottfried Semper, architetto e teorico tedesco dellottocento, si sarebbe poi sviluppata come architettura abitata, con etimo appunto nella parola abito, grazie alla pratica della tessitura, tutta femminile, attraverso la quale veniva costruito labito per il corpo. Da l avrebbero infatti preso spunto le costruzioni arcaiche fatte di strutture intrecciate (tende e capanne), materiali tessuti sullesempio di quanto facevano le donne della trib.
Al di l della curiosit della teoria, stupisce gi a met dellottocento questo approccio antropologico allo studio dellarchitettura, che evolve con luomo sulla base delle sue esigenze sociali.
In realt, ci dice la grammatica che il latino habitare un verbo frequentativo (o intensivo) di habere (avere). Esso significa, innanzitutto, avere continuamente o ripetutamente. Abitare rimanda quindi allavere con continuit. Labitante, allora, ha il luogo in cui abita" (Sebastiano Ghisu, Essere, abitare, costruire, vedere), e lo ha tanto pi quanto pi lo personalizza, lo rende unico e rispondente allidea che ha di s ..
Anche secondo questa derivazione, lidea di abitare strettamente legata allabitante/possessore, alla sua vita, al suo tempo, alle sue esigenze peculiari e transitorie. In questo senso larchitettura un bene di consumo, che muta, o dovrebbe mutare, a seconda delle necessit e delle richieste. Come gli abiti.
Partendo da Walter Benjamin (Parigi capitale del XIX secolo appunti incompiuti del 1925: Moda e architettura appartengono all'oscurit dell'attimo vissuto, alla coscienza onirica del collettivo .. architetture, moda, anzi persino il tempo atmosferico, sono, all'interno del collettivo, ci che i processi organici, i sintomi della malattia o della salute, sono all'interno dell'individuo), Patrizia Calefato, che si interessa di sociolinguistica, scrive: C' un profondo intreccio - poetico, semiotico, testuale - tra la moda e la citt, un intreccio che si avviluppa sul nucleo della "strada", per riprendere l'immagine di Benjamin, intesa come il luogo dove il gusto sperimenta l'atmosfera del tempo, come zona di incrocio tra culture e tensioni, come spazio fisico e metaforico entro cui la citt acquisisce il suo senso in virt di pratiche sociali condivise. Dalla "strada", concepita in questo modo, possibile guardare ai flussi che moda e architettura veicolano e moltiplicano.
E poi, basta pensare agli edifici e agli abiti del barocco, del rinascimento, del neoclassicismo per rilevare a colpo docchio profonde analogie tra moda e architettura. Pi o meno consapevolmente, la moda si caratterizzata nel tempo in senso concettuale, assecondando sempre di pi la fluidit (passami il termine abusato) del corpo anzich lesibizione di esteriorit, per giungere oggi ad una disinvolta ibridazione di forme e materiali grazie alla quale moda e architettura si integrano come stili di vita e forme di estetizzazione del quotidiano.
E non un caso che famose archistar firmino i punti vendita di famosi marchi di fashion.
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Commento 9212 di pietro pagliardini del 19/12/2010
Leggo oggi, contemporaneamente, i due commenti di Maurizio e Vilma.
Mi avete preso in castagna, inutile negarlo.
In questo momento non so cosa rispondere altrimenti non esiterei un attimo a farlo.
Non ho capito, davvero, se i vostri sono giochi di parole, ma l'etimologia non mai casuale anche se non spiega tutto, oppure se abbiate risolto l'arcano.
Il nesso tra abito e abitare indiscutibile, non solo per l'origine della parole.
Per cui mi fermo qui, accuso il colpo e, fino a che non sar riuscito a cogliere se c' e dove sta la differenza, soprattutto in relazione al consumo, non replicher a vanvera e senza convinzione.
A presto (spero)
Pietro
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Commento 9214 di maurizio zappal del 24/12/2010
E certamente non avevo intenzione e capacit di risolvere alcun problema sui massimi sistemi di pensieri. E certamente qualcuno prende appunti e saccentemente crede di specificare o interpretare meglio, con complementi di specificazione "professorali". Insomma incontri sempre professori che presumono la sappiano meglio e pi di te! E, cacchio, le scuole ce l'ho anch'io...sembrano dire!Comunque cercando di andare avanti e non so se ne valga la pena, un tale Loos scrisse di "come vestirsi, di come arredare la propria casa, di come mangiare, di come comportarsi in societ e di come stare al mondo, architettando" e il suo amico Kraus lo aiutava a ridicolarizzare con ogni minuzia, la vita quotidiana, suggerendogli di volta in volta qualche aforisma per sdrammatizzare la miseria della societ, di quei tempi(sici!). E certamente dobbiamo sempre udire quale sono le richieste dei nostri committenti ma sembra altrettantanto banale e semplice che non avendo in testa un manuale tipologico che sforni funzionalit a go-go al centimetro quadrato, esploda la voglia di prendere per il lato B l'architettura.E che noia stare l a prendere sempre appunti per capire se meglio mettere la "pila" a destra o la "lavatrice" a sinistra! La claustrofobia della funzionalit, credo, abbia prodotto generazioni di "impotenti"...spaziali che ancora si chiedono come viene fuori altro, senza il controllo della funzione!Insomma non mi spostate le carte o i mobili che entro in confusione! Mi preoccupo quando tutto funziona demiurgicamente, perche l vuol dire che passato Mastro Lindo o Mister Muscolo che ha spazzato via la crosta tattile, per me , fondamentale del fare architettura! Che megalomane quel Loos!
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Commento 9235 di domenico cogliandro del 09/01/2011
Ho gi detto ad Ugo qualcosa intorno al testo. Mi trovo nella difficile situazione dell'innamorato che non pu fare a meno di amare, perch quella la sua condizione o la sua pena. Vorrei essere frainteso ma non posso esserlo, fuor di dubbio. Ecco: amo Ugo Rosa. Come a suo tempo ho amato Raymond Chandler, follemente, o disperatamente Peter Handke. Come ho odiato (amando) il notabile Umberto Eco nella descrizione minuziosa delle eresie o la terribile attesa che accadesse qualcosa tra una nave in secca e la penna di Joseph Conrad. Mi sono dichiarato, dunque: non sono obiettivo. Ecco perch penso che Ugo abbia sbagliato passo, nel senso di cammino, percorso, trazzra. Ha scritto per alcuni naufraghi che pensano ancora di vedere la zattera che han detto loro di notare se si parla di isole, mare e orizzonti. Nostalgici del dito, non della luna. Pi prosaicamente: vera architettura quella che resiste al tempo e che ha come dannazione l'incomprensione del proprio, tempo. In questo affresco Ugo somiglia al redivivo Isidro Parodi, vive nel luogo (assente) da cui possibile sbrogliare i nodi non essendovi imbrigliato. Io faccio cos quando mi trovo per mano dei fili imbrogliati: chiudo gli occhi, e sbroglio. Per questo lo amo. Ma tra il dito e la luna non c' solo una distanza astratta, c' il mondo intero.
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Commento 9241 di Salvatore D'Agostino del 15/01/2011
Ugo Rosa,
leggo solo adesso la tua risposta.
Condivido questo tuo pensiero: Funziona, dunque, ci che risponde al compito per cui stato messo in atto e vi risponde nel modo pi adeguato.
Qual il compito di un museo darte contemporanea di una capitale non solo europea ma mondiale?
Tre appunti:
CAPITALISMO TRANSNAZIONALE
Per Leslie Sklair non possiamo trascurare linfluenza della classe capitalistica transnazionale sullarte e larchitettura contemporanea.
Classe capitalistica che abita le citt globali.
In suo articolo apparso su Lotus (n.138) concludeva con una riflessione:Oggi anche utile riflettere su come la nuova architettura iconica nei quartieri e nelle citt possa incontrare i bisogni di coloro che vivono senza assecondare semplicemente la cultura-ideologia consumistica. Ma ci implicherebbe la fine della globalizzazione capitalistica che noi conosciamo.
LARTE RELAZIONALE
Nicolas Bourriaud nel suo saggio (ora libro anche in Italia) Estetica relazionale dice: Per inventare strumenti pi efficaci e punti di vista pi corretti, importante capire ci che cambiato e ci che continua a cambiare. Come si possono comprendere i comportamenti artistici manifestati dalle mostre degli anni Novanta e le modalit di pensiero che li animano se non si parte dalla stessa situazione degli artisti?
Per Bourriaud larte di oggi uno stato dincontro.
OGGETTI DARTE
Joseph Kosuth ---> http://www.globartmag.com/wp-content/uploads/2009/10/joseph-kosuth.jpg
Kateřina ed ---> http://www.exibart.com/foto/78514.jpg
Chris Marker ---> http://journals.dartmouth.edu/cgi-bin/WebObjects/Journals.woa/2/xmlpage/4/article/289/immemory18.jpg
Il tuo articolo ha due pecche (non unaccusa):
la prima, comune alla critica degli ultimi ventanni (quella che ha amato pi la filosofia che la sostanza), la lettura dellimmagine (costi, politica, analogie visive arca-sarcofago, ) pi che la sintassi dellarchitettura.
Conosco tre architetti che lavorano per Zaha Hadid che parlano solo di sintassi. Sintassi che, personalmente non condivido (ma questo non importa);
la seconda, lincapacit, della stessa critica di parlare con la stessa veemenza, della continua devastazione a opera del popolo del cemento del nostro paesaggio. Troppo poco cool, non da happy hours.
Per questo motivo trovo inutile e troppo semplice parlare di questo museo, totalmente devastato (poich mozzato) dalle revisioni dei tecnici comunali (per ricordarci che siamo in Italia).
Detto tra noi, io apprezzo le analisi sullarte di Mario Perniola nel suo "L'arte e la sua ombra ma ho altre necessit (ma anche questo non importa).
Io partirei da un critico eteronomico, che apprezzo secondo la maschera che indossa.
Si chiama UGO ROSA.
Il 19 ottobre del 2008 su archit, ha scritto un articolo, geniale direi perfetto, dal titolo GIUSEPPE DI VITA. Complesso parrocchiale a San Cataldo.
Ti passo il link: http://architettura.it/architetture/20081019/index.htm
Ripeto perfetto, perch LEGGE LA SINTASSI DELLARCHITETTURA E NON LA SUA IMMAGINE.
Essendo pedestre, non sopporto i critici 'incazzati' cool da divano come Ugo Rosa preferisco Ugo Rosa.
Saluti,
Salvatore DAgostino
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