I guai di Tafuri
di Luigi Prestinenza Puglisi
- 19/4/2007
Perch riparlare di Tafuri, dopo anni che del critico sembrava essersi persa traccia? Potremmo rispondere con una battuta: perch, da un po' di tempo a questa parte, stiamo vivendo in un periodo di crisi, di sfiducia e, anche, di ritorno della palude accademica. E, come sempre succede in questi casi, si rivendica, contro il presunto periodo di confusione e di anarchia precedente, il rigore e la teoria. Magari puntando sul fatto che il tempo trascorso faccia dimenticare i disastri che questo tipo di approccio aveva provocato.
Chi, come me, si laureato verso la fine degli anni settanta, i disastri tafuriani li ha vissuti sulla propria pelle e sa quanto tempo c voluto per rimediarvi. Soprattutto per mettere alla luce il fatto che dietro il presunto rigore e la presunta costruzione teorica si celava una pochezza disarmante di concetti, spesso confusi ma presentati con un linguaggio esoterico che li spacciava come profondi, secondo una moda tipica di quegli anni. Quando poi questi concetti venivano ripresi dai tafuriani, il guaio era ancora peggiore. Come sempre accade, i discepoli sono peggiori, infinitamente peggiori, dei maestri, per quanto cattivi essi siano.
Quale il principale equivoco tafuriano? E quello tipico della cultura marxista: consiste nel credere che si possa fare una critica allideologia e che, praticandola, si possano porre le premesse per un discorso qualitativamente superiore a quello ahim ideologico- della restante critica. Ammantandosi della veste dello storico al di sopra dell'ideologia ma in realt facendo una critica operativa e cio ideologica, Tafuri si sbarazzato cos di tutta la critica operativa fatta passare come ideologica: un vero colpo da maestro, reso possibile dal fatto che molti dei suoi avversari proponevano tesi talmente ingenue che non era difficile ridicolizzarle, mostrandone le debolezze. Ma come facile capire- le debolezze delle tesi altrui non costituiscono prova della forza delle proprie.
Quali erano le tesi di Tafuri? Ecco un bellinterrogativo al quale non sempre facile rispondere. Da vero maestro nellarte della polemica, Tafuri le proprie riusciva a renderle apparentemente inattaccabili perch sempre sufficientemente vaghe, polisense e inverificabili: esattamente il contrario di quanto sarebbe auspicabile per un corretto discorso scientifico. Che vuole dire esattamente in questo brano Tafuri? E una domanda che si pu ripetere quasi per ciascuna sentenza della sua innervosente prosa. Che non inintelleggibile, come vorrebbero alcuni, ma artatamente vaga, oracolare e corazzata attraverso un terroristico apparato di note e di erudizione. Detto per inciso: ci sono voluti anni, dopo un cos cattivo e affascinante maestro, per far capire che la scrittura critica doveva puntare alla chiarezza e non alloscuro, alla forza delle idee e non al latinorum delle note dotte e delle citazioni astruse.
A cosa ha portato il tafurismo? A tre mostri: uno storico, uno filosofico e uno architettonico.
Il mostro storico ha divorato la critica: producendo una sfilza di discepoli che si sono persi nella ricerca del dato, scambiando questa con la critica. Basta vedere, in proposito, cosa successo con la scuola di Venezia, che non ha prodotto nulla ripeto- nulla di significativo da diversi lustri a questa parte. Con un fenomeno che, a cascata, ha interessato un po tutta la penisola, distruggendo lo stesso insegnamento della storia, dato in mano a una caterva di miopi eruditi che non sanno andare oltre il loro sempre pi ristretto campo di specializzazione.
Il mostro filosofico ha divorato, poi, il pensiero scientifico e sperimentale. Le simpatie fenomenologiche di Tafuri e della sua cerchia, unite a rimasticature poststrutturali, hanno tirato fuori la peggiore sottocultura di matrice heideggeriana, con conseguente sopravalutazione di tutte le posizioni pi reazionarie e tradizionaliste: soprattutto di quelle che vogliono vedere il costruire come un atto originario, che puntano alla feticizzazione dellidea di luogo e al sospetto nei confronti delle moderne tecnologie. Per non parlare di quella cosa insopportabile che la mistica dellassenza: lessere che gioca a rimpiattino dietro al fenomeno. Detto per inciso non un caso che nella sua storia dellarchitettura Tafuri dedichi tre o quattro righe, e per giunta imprecise, a Buckminster Fuller.
Il mostro architettonico ha divorato ogni poetica che non fosse autoreferenziale. Abbagliato da un preconcetto storiografico classicista secondo il quale larchitettura deve per forza puntare a rappresentare il mondo nella sua pienezza ontologica- e avendolo capovolto in uno scacco continuo ( larchitettura, per quanto ci provi, alla fine scopre che non ci potr mai riuscire), Tafuri ha privilegiato nella sua ricerca solo i lavori che cadevano o che parevano cadere - in questa trappola: come quelli di Rossi, e di Eisenman, di Kahn, dei Stirling. Sottovalutando ricerche, meno autoreferenziali e proprio per questo pi importanti, interi capitoli sono stati tralasciati. Quelli scritti dagli innovatori, dai creativi, da coloro che facevano sperimentazioni di avanguardia, dai professionisti per portare invece sugli scudi personaggi creativamente modesti: a partire da Gregotti e a finire in tutta una selva di veneziani e di milanesi dei quali oggi, per fortuna, non se ne sa pi niente.
No, per carit, Tafuri lasciatelo riposare in pace. E se qualche americano, trainato da quel personaggio per molti aspetto deleterio che Eisenman, vuole riscoprirlo, lasciateglielo fare. Cos si accorger sulla propria pelle dei disastri che un certo integralismo ideologico, ammantato da critica dell'ideologia, e parallelamente una mistica religiosa, camuffata da materialismo, pu provocare.
L'articolo tratto dalla sezione "Scritti brevi" del sito di Luigi Prestinenza Puglisi, www.prestinenza.it
(Luigi Prestinenza Puglisi
- 19/4/2007)
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Commento 5205 di Andrea Pacciani del 19/04/2007
Parole sante! spero che Antithesi aiuti ad amplificare qusta puntuale descrizione di una de "le grandi bugie" (usando l'espressione del noto libro di Pansa) dell'architettura del secolo scorso.
L'autoreferenzialit nell'architettura il male assoluto e la morte degli ambiti dell'architettura.
Mi aspetto ora dal buon Puglisi il disvelamento di altre bugie, da Le Corbusier in poi, su cui ha campato e campa ancora l'intelligentia architettonica dominante in Italia
Plaudo chiunque sia capace di rimettere al centro della critica , della storia e della composizione dell'architettura le persone che vivono e abitano quei luoghi e il rispetto per la loro intelligenza
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Commento 5305 di alessio lenzarini del 24/04/2007
Rispondendo all'intervento del sig. Pacciani, faccio una confessione: io sono un architetto autoreferenziale! Nel senso che concepisco lo svolgimento della mia professione (potrei dire pratica artistica?) come il tentativo di assolvere al programma funzionale richiesto dalla committenza sviluppando nel contempo un tema 'linguistico' che spero possa rivelarsi di qualche interesse. In altre parole, ho sempre ingenuamente creduto che il mio ruolo di architetto consistesse nel lavorare sugli elementi costitutivi dell'architettura stessa: spazio, volume, dettaglio e reciproche interazioni compositive! Ora, apprendo dal sig. Pacciani, e con mio grande dispiacere, che col mio operare scriteriato (per quel pochissimo che mi dato realizzare) sto contribuendo alla morte dell'architettura e mi sto macchiando le mani del male assoluto! Ovviamente sono entrato in piena crisi esistenziale e ho subito messo in discussione il mio intero sistema valoriale: ma, partendo dal basso dei miei 35 anni, nutro fiducia di poter ancora ravvedermi e rientrare nei binari dell'architettura buona e giusta: implorerei quindi sinceramente il sig. Pacciani di aiutarmi e di spiegarmi 'concretamente' come deve operare un architetto che non voglia limitarsi a fare progetti belli, magari concettualmente stimolanti e problematici, bens voglia rendersi davvero utile al benessere della comunit in cui vive! Per agevolare l'ingrato compito educativo che mi permetto di chiedere al sig. Pacciani, aggiungo alcune considerazioni personali, che ritengo sintomatiche del grado di perversione culturale in cui ho finora versato:
a) ho sempre creduto che l'architettura, pur col pesante fardello delle sue specificit disciplinari, fosse una forma d'arte come tutte le altre e che come tale si ponesse l'obiettivo, nelle sue espressioni pi alte, di comunicare concetti: elaborare interpretazioni del mondo della realt della storia, stimolare intellettualmente e anche provocare il pubblico, fertilizzare la societ con input culturali.
b) ho sempre creduto che la buona riuscita di un'opera d'arte non potesse valutarsi con parametri commerciali un tanto al chilo, a seconda del successo immediato di impatto sul pubblico, ma che anzi fosse fisiologicamente connesso a qualsivoglia disciplina artistica un certo grado di difficolt nel rapporto col pubblico: perch quanto pi quello che ho da dire nuovo e importante (magari importante proprio perch nessuno vuole che lo si dica) tanto meno il pubblico sar naturalmente e spontaneamente propenso ad ascoltarlo. E quindi ho sempre creduto che l'arte svolgesse il suo compito per tempi lunghi e per canali indiretti, per lenta germinazione culturale collettiva, e che una parziale distanza temporanea da parte del pubblico fosse un sano scotto da pagare in cambio della possibilit di esprimere contenuti davvero profondi.
c) ho sempre creduto che, tra tutte le forme d'arte, l'architettura fosse una delle pi irriducibilmente autoreferenziali (forse seconda solo alla musica). Perch se sono uno scrittore o un cineasta o un artista pi o meno figurativo dispongo, nello specifico disciplinare della mia attivit, di vari gradi espressivi pi o meno direttamente comunicativi (ovvero posso scegliere di lavorare autoreferenzialmente sul linguaggio ma posso anche esprimere il mio pensiero in maniera pi diretta e quasi comprensibile a tutti lavorando sulla trama, sulla cronaca sociale, sulla satira politica, sull'enunciato filosofico, sulla caratterizzazione psicologica, sull'immagine esplicativa...), mentre se sono un architetto, nonostante lo stretto legame fruitivo tra la mia opera e il pubblico, faccio un po' pi fatica a comunicare 'direttamente' il significato delle mie scelte spazio-volumetriche e mi devo accontentare di una interpretazione largamente traslata e mediata da parte del pubblico.
d) ho sempre creduto che, in fondo in fondo, tutte le polemiche sull'autoreferenzialit siano un po' sterili: perch se un artista utilizza un'elaborazione strettamente linguistica per esprimere contenuti di interesse collettivo poi davvero cos autoreferenziale? Oppure l'autoreferenzialit quasi sempre nell'occhio di chi la vede tale perch non ha gli strumenti culturali necessari a comprendere il testo artistico che si trova di fronte e pertanto gli sembra solo un vuoto giochino di segni?
e) non ho mai capito (per quanto mi ci sia sforzato) a cosa ci si riferisca 'concretamente' tutte le volte che si parla amenamente dell'intrinseco valore dell'abitare, delle reali esigenze delle persone e che si invitano gli architetti al rispetto del loro ruolo sociale. Giuro: non l'ho mai capito! A meno che non ci si riferisca a: 1) il fatto che il mercato edilizio sia pieno zeppo di committenti, pubblici o privati, cos fessi da farsi tranquillamente costruire edifici inabitabili e infruibili ad opera di architetti malati di mente 2) una serie di esigenze e aspettative sociali a cui il progetto di architettura non pu rispondere in alcun modo e che piuttosto attendono risposta dalla politica, dall'economia ed eventualmente dall'urbanistica 3) il tentativo eroico di manipolare in fase progettuale il programma funzionale richiesto dalla committenza (del tipo: tu mi chiedi un centro commerciale ma io ti progetto una piazza alberata perch sono socialmente impegnato!) e il conseguente tentativo, ancora pi eroico, di non essere licenziati in tronco 4) la facile ricerca di un consenso di pubblico, attraverso la riproposizione reazionaria di linguaggi storicamente consolidati e quindi concettualmente innocui, al fine di perseguire un presunto consenso sociale che anestetizzi il pubblico e lo distolga dal pensare.
non mi resta che attendere lumi dal sig. Pacciani: in attesa dei quali, credo congeler temporaneamente la mia attivit progettuale, per non rischiare di aggravare ulteriormente lo stato di salute dell'architettura e di propagare ulteriormente il male assoluto!
cordialmente
alessio lenzarini
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Commento 5306 di andrea pacciani del 25/04/2007
Gentile Alessio Lenzarini,
Sono stato tentato dal non risponderle visto anche la sua promessa di astenersi dalla professione nella paura di far danno in attesa della mia replica, ma lo faccio con piacere per evitarle sofferenze cercando di usare le sue parole.
Innanzi tutto chi l'ha detto che ogni architetto debba sviluppare un proprio esclusivo tema linguistico? E' la prima grande bugia della modernit! cos facendo purtroppo ogni professionista bravo o scarso che sia costretto a "gridare " il proprio messaggio architettonico in una babele di neologismi e l'unico interesse che pu suscitare quasi sempre , solamente e ovviamente il propio.
Chi l'ha detto che ogni architetto debba dire qualcosa di nuovo, e chi l'ha detto che ogni cosa di nuovo pu essere importante? E' la seconda bugia della modernit; a causa di questo dovere, neanche fosse il giuramento di Ippocrate per i medici, ogni edificio inabitabile e infruibile ad opera di architetto malato di mente legittimata.
Chi l'ha detto che il pubblico debba pagare lo scotto di abitare dei luoghi che non gli appartengono per dare la possibilit di esprimere contenuti profondi dell'arte?E' la terza bugia della modernit. E' un'arroganza che non ha precendenza nella storia. L'architettura un campo in cui non ci si pu permettere di fare sperimentazioni sulla pelle delle persone anche perch i prodotti di questi sperimentalismi rimangono costringendo la gente ad adattarvisi; con buon senso in passato la ricerca e la sperimentazione sono sempre state relegate negli ambiti della provvisoriet degli edifici o alla loro mancanza di presenza costante di vita quotidiana: da S.Pietro in Montorio alle , dalle cappelle mortuarie di famiglia, dalle scenografie dei Bibbiena alla Torre Eiffel, nelle esposizioni universali e nei quertieri fieristici....... Oggi purtroppo si fanno sugli edifici dove vivono e lavorano quotidianamente persone completamente alvulse da quellle architetture.
Non mi dilungo oltre. Se gentilmente si pu rileggere qualche mio altro intervento gi scritto inpassato su questo sito pu farsi un'idea pi completa su cosa vuol dire fare architettura tradizionale e sulle mie idee in generale.
con cordialit
Andrea Pacciani
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Commento 5307 di Leandro JANNI del 30/04/2007
Tafuri.
Mistico senza religione?
Disincantato pensatore senza valori da trasgredire?
No. Semplicemente, falso (seducente) profeta. Con barba. Ovviamente.
Come sempre, "dai frutti li riconosceremo".
Amen.
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Commento 5309 di Alessio Lenzarini del 03/05/2007
Proseguo il dibattito con il sig. Pacciani, ringraziandolo ovviamente per la puntuale risposta. E parto rispondendo a mia volta ad alcune sue domande.
"chi l'ha detto che ogni architetto debba sviluppare un proprio esclusivo tema linguistico?"
io non l'ho detto di certo: magari potesse essere cos, saremmo una categoria composta tutta da geni! Nella realt delle cose, ci saranno architetti in grado di farlo ed altri, magari bravissimi, che si limiteranno a sviluppare temi proposti da altri e forse li arricchiranno di nuove interpretazioni inespresse o semplicemente contribuiranno a divulgarli: rendendoli parte integrante del nostro immaginario collettivo e quindi partecipando attivamente ad una 'fertilizzazione concettuale' della societ in cui viviamo. Mi sembra che questo sia un meccanismo comune da sempre a tutte le arti, non esclusa l'architettura. E, leggendo, come da suo invito, gli altri interventi del sig. Pacciani su Antithesi, mi sembra che sia un meccanismo a lui affine, nella misura in cui simpatizza per l'architettura spontanea del passato, fatta non dai celebrati maestri ma dagli oscuri mastri muratori. Forse per il sig. Pacciani vittima di un pregiudizio sulla contemporaneit: credere che i temi proposti dai maestri contemporanei non siano abbastanza profondi e importanti (e concettualmente di interesse collettivo) per meritare questo processo di ripetizione e divulgazione.
"chi l'ha detto che ogni architetto debba dire qualcosa di nuovo?"
idem come sopra.
"chi l'ha detto che ogni cosa di nuovo pu essere importante?"
appunto: 'pu' essere importante, non necessariamente lo . Ci mancherebbe altro che si propugnasse il nuovo fine a se stesso! Se un architetto iniziasse un progetto sforzandosi di tirar fuori dal cilindro qualcosa mai fatto prima, senza alcuna altra motivazione, lo considererei abbastanza superficiale. Per le vie dell'arte sono infinite: magari da quel gesto superficiale del 'nuovo per il nuovo' ne scaturisce un input per qualche altro architetto, pi bravo e pi impegnato, che ne potr trarre ispirazione per fare qualcosa di davvero importante. E comunque la ricerca del nuovo, se pu celare aspetti superficiali, d'altro canto incarna pienamente una delle caratteristiche pregnanti dell'arte: essere sempre al passo coi tempi, o meglio uno o due passi avanti ai tempi, per esprimere e interpretare incessantemente la dimensione della contemporaneit.
"chi l'ha detto che il pubblico debba pagare lo scotto di abitare dei luoghi che non gli appartengono per dare la possibilit di esprimere contenuti profondi dell'arte?"
premettendo che io parlavo dello scotto che paga l'artista barattando una certa distanza del pubblico in cambio della libert d'espressione (un aspetto cardine di tutta l'arte del novecento, tanto cardine da essere ormai banale parlarne), credo che qui si venga al vero nocciolo della questione. Poich non stiamo parlando di macro-politica urbanistica, con conseguente e innegabile impatto sociale, bens di linguaggio architettonico pi o meno presuntamente autoreferenziale, io sono portato a nutrire seri dubbi sull'entit del disagio delle persone di fronte all'architettura contemporanea: cos come, specularmente, nutro seri dubbi sulla effettiva incidenza del linguaggio architettonico, di qualsivoglia tendenza, sulla vita e sui problemi delle persone. In altre parole, non credo che l'architetto abbia oggi, n abbia mai avuto, alcun tipo di pregnante responsabilit sociale 'diretta' a guida del suo operare, tranne quella (importantissima ma 'indiretta') di sfruttare al meglio ogni occasione progettuale che gli si offre, trasformando una semplice richiesta funzionale in un testo artistico comunicativo. La questione senz'altro complessa e non ho la pretesa di esaurirla in queste poche righe. Mi limito a buttare l alcune riflessioni in ordine sparso: siamo cos convinti che il senso di appartenenza ad un luogo (ammesso e non concesso che costituisca un obiettivo davvero socialmente rilevante) possa essere perseguito e progettato a tavolino, scegliendo di progettare in un modo piuttosto che in un altro? oppure tale senso identitario scaturisce, quasi proustianamente, da uno sfaccettato insieme di percezioni soggettive stratificate nel tempo, cui il linguaggio architettonico contribuisce poco o nulla? Ricordo che il mio primo professore di progettazione stato Paolo Zermani, incorruttibile alfiere del contesto, del luogo, della permanenza della storia: da brava matricola, era il '91, mi concessi con alcuni amici un tour delle prime architetture zermaniane, disseminate nei paesini della provincia parmense: non ci volle molto ad accorgerci di come gli abitanti di quei luoghi usassero amenamente schernire gli studenti che sfilavano in processione adorante: fu strano (e divertente) scoprire che tutte quelle persone non avvertivano alcuna affinit con le architetture zermaniane, cos sensibilmente calate nel contesto, ma le percepivano semplicemente 'moderne' e in quanto tali aliene, pretenziose e fastidiose: paradossalmente, veniva imputato a quegli edifici proprio il contrario degli assunti poetici da cui erano nati: "ma vi sembra che stia bene quell'affare messo proprio l?". Ovviamente questo solo un aneddoto, ma credo che la dica lunga sulla presunzione (e forse sulla malafede populista) di tutti quegli architetti che si arrogano il diritto-dovere di 'ascoltare la voce del luogo'. Il contestualismo, checch ne dicano certi signori, non l'unico modo buono e giusto di concepire l'architettura, n tantomeno una ricetta dorata per la concordia sociale: molto pi semplicemente una poetica architettonica, che esprime determinati concetti trasferendoli in linguaggio architettonico. Il contestualismo un linguaggio! E come ogni altro linguaggio contribuir a veicolare i suoi concetti nella nostra societ. E ogni linguaggio diverso veicoler concetti diversi, visioni diverse della societ stessa: questo, mi pare, si chiama dibattito architettonico!
Mi obbligo a fermarmi, perch mi sto dilungando oltre misura.
Se il sig. Pacciani avr la bont e la pazienza di rispondermi, proseguir volentieri il dibattito!
buona giornata a tutti
alessio lenzarini
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Commento 5313 di andrea pacciani del 10/05/2007
Gentile Lenzarini,
anche questa volta cerco di rispondere con le sue stesse parole per chiarezza:
L'architetto che si limita a sviluppare temi proposti da altri e forse li arricchisce di nuove interpretazioni inespresse o semplicemente contribuisce a divulgarli pu esistere con dignit di risultato solo se fa architettura tradizionale non moderna; il fare imitativo della storia dell'architettura fino al secolo scorso (se ha voglia di leggere le consiglio Pigafetta, Architettura dell'imitazione- Alinea). Ripetizione e divulgazione non appartengono alla culura dell'architettura moderna: legga solo che putiferio si fa su questo sito perch Ghery fa ripetizione e divulgazione di se stesso!
Si rilegga queste sue righe e per onest intellettuale mi dica che non ci crede a quello che ha scritto:
da un gesto superficiale (di un architetto moderno/autoreferenziale/sperimentalista ndr) del nuovo per il nuovo ne scaturisce un input per qualche altro architetto, pi bravo e pi impegnato, che ne potr trarre ispirazione per fare qualcosa di davvero importante; ma s spargiamo il territorio di tentativi a caso non si sa mai si celi una genialit inespressa.
Chiudo con due altre grandi bugie della modernit che spuntano anche nel suo intervento :
1)L'appartenenza ad un luogo di chi vi deve abitare non un obbiettivo dell'architettura
2)il contestualismo ovvero usare materiali e finiture della tradizione locale per mimetizzare autorefenzialismi
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