Minimalismo? Non mi piace
di Sandro Lazier
- 30/8/2001
Se si dovesse dare una
definizione cattiva del minimalismo potrebbe essere questa:
la ricerca del nulla, definita in ogni dettaglio.
Dal mio punto di vista, zeviano, spaziale, concretamente legato alla vita
ed alla vicenda umana, la scatoletta intellettuale dei minimalisti non
piace molto: dando per scontata una condizione (della vita e dell'architettura)
non modificabile nella sostanza, la si accredita mistificandone l'essenza
ripulita da ogni disturbo spaziale. Ma il controllo, se non addirittura
l'abolizione, della de-formazione spaziale, essendo questa il solo strumento
di espressione linguistica, porta fatalmente alla negazione del linguaggio
e della sua virtualità creativa. Quindi minimalismo tendente a
riduzione, semplificazione, afasia.
Ci siamo appena emancipati da certa poetica del silenzio e del rigore,
malgrado qualche morto vivente che ancora pontifica dalle colonne del
Corriere, ed ecco che, se non stiamo attenti, ne verremo risucchiati.
Non mi piace, quindi, e mi spiace, che Prestinenza Puglisi presupponga
il superamento del linguaggio scomposto (spazialmente scomposto) mediante
la reazione ascetica che dovrebbe condurre al minimo linguistico. Non
mi piace per due ragioni:
1 - Quella che Puglisi definisce "eccesso di forme dell'architettura
decostruttivista", se da un lato implica che l'analisi venga fatta
sulle forme, appunto, dell'architettura e non sullo spazio che le stesse
determinano e coinvolgono, dall'altro dichiarano quanta difficoltà
incontri la deformazione spaziale (e quindi la liberazione dalla geometria
tradizionale) a introdurre nuove esperienze abitative autonome e principali
rispetto alla forma ed al significato che ad essa tendiamo attribuire.
2 - L'equivoco relativo all'uso dello strumento informatico in architettura
può ingrossare. Se tale strumento è concepito come la possibilità
di controllare a priori una geometria misurata e definita, rapportabile
ad assi cartesiani e piani di riferimento, malgrado la difficoltà
formale della rappresentazione, non si sono comprese appieno le possibilità
del mezzo e la sua relazione intima con la nozione di complessità.
Sperare di utilizzare la scoperta dell'informatica come avvenne per la
scoperta della prospettiva nel rinascimento, può portarci solo
su una strada che bene conosciamo e che da tempo stiamo combattendo: l'oggettivazione
dell'architettura.
In realtà la complessità non si governa a priori; con essa
ci si convive. Infatti, l'informatica è strumento strategico eccellente
non per governare ma per gestire. Ridurla ad artificio descrittivo di
un'esperienza formale è tradirne il senso.
Esempio: racchiudere una nuvoletta in una scatola di vetro è processo
contrario all'uso sofisticato del mezzo informatico. Infatti, l'infinita
tonalità spaziale di una geometria complessa, fonte quindi di infinite
esperienze spaziali, viene banalizzata dal riferimento cartesiano che
la comprende (prende dentro) riducendo a percezione - o suggestione visiva
- ciò che invece dovrebbe essere vera esperienza di vita.
Ma è veramente così difficile liberarsi della
geometria e della sua metafisica purezza?
Mi spiace per Puglisi ma prima di liberarci di Gehry ed Eisenman dovrà
convincerci della loro inadeguatezza rispetto ad una realtà sempre
più complessa, complicata e rumorosa, dove tensioni etiche, politiche,
sociali richiedono dovere ed impegno che non possono concedere più
di tanto al fuggevole formale ed alle sue tendenze.
(Sandro Lazier
- 30/8/2001)
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