Il campo di margherite
di Silvio Carta
- 17/5/2005
Forse la colpa sarebbe da attribuire alla quantit di ricci e vino bianco
che hanno suggellato il mio ultimo Luned dell'Angelo, o forse
semplicemente il caso di fare una ammissione di colpa.
Mescola e rimescola ma dalla mia pentola escono solo strane linee con tre quarti
di curva da un lembo.
Confusione.
questo che provo quando leggo sugli articoli di giornale della mia citt
l'avversione della gente a cancellare un pezzo di citt. Qualsiasi volto
abbia una piazzetta, se ti permetti di proporre una qualsivoglia modifica sei
subito accusato di assassinio alla memoria. Sei una persona senza sensibilit!
Quella strada quella dove passavo con mio nonno da bambino e tu sei un
mostro! Lascia il mondo cos com'.
Tutto questo senza che nessuno abbia avuto la minima occasione di spiegare il
movente della sua proposta di reato nei confronti della memoria.
E cos il giorno che fu proposto di abbattere un'ala di un liceo classico
storico della citt per fare spazio ad un asse stradale che collegasse
due punti della citt altrimenti isolati, le urla di accusa si sentirono
fino al mare. Oppure ora, che iniziano i lavori per ripristinare allo stato del
progetto originale un giardino pubblico, che, per una strana storia, venne invece
"modificato" con una vasca centrale con i pesci rossi. E subito il coro
a chiedere giustizia per i pesci rossi che nulla centrano con lo spirito del luogo.
Io non vorrei entrare nel merito della correttezza o meno di quello piuttosto
che di quell'altro gesto, ma continuo a non capire l'avversione a priori delle
persone per i cambiamenti.
Paura del nuovo.
Sembra esserci una equazione invisibile che aleggia su tutti noi: nuovo uguale
brutto. Nuovo uguale problemi, nuovo uguale anche quello di prima era brutto ma
questo sar sicuramente pi brutto. L'edera che copre e consuma
i mattoni sembra ingentilire un muro. Alcuni sbilenchi oggetti entrano con prepotenza
nella nostra vita, ne parliamo, li vediamo, li visitiamo, li critichiamo con gli
amici; ma in un momento non bene definito, li assimiliamo, i succhi gastrici del
nostro cervello li digeriscono consumandoli, rendendo quegli spigoli prima tanto
fastidiosi, smussati. Il tempo poi passa e ci scopriamo incredibilmente affezionati
a quella stanata vista, non ancora all'oggetto, ma alla sua presenza. Il Vittoriano
in piazza Venezia. Se domani mattina non esistesse pi, e al suo posto
trovassimo un bellissimo capo di margherite quale sarebbe la nostra reazione?
Perch chi prende il caff ogni giorno non si ferma mai a pensare
che forse ne potrebbe fare a meno? Potrebbe fare uso di un suo surrogato, potrebbe
rendersi conto di non averne veramente bisogno, ma di avere necessit pi
dell'abitudine, che dell'oggetto stesso; potrebbe chiedersi continuamente se ci
che vede veramente bello o una stampa nel retro della sua memoria
visiva. Abitudine non necessariamente qualit, come vecchio non
necessariamente bello. Se qualcuno allora ha la volont di criticare
(nella sua accezione greca) alcuni degli oggetti che formano il nostro paesaggio
quotidiano, e ha il coraggio di proporre delle modifiche in virt di migliorare
la nostra esistenza, perch gli spettatori vanno in cantina a spolverare
la gogna?
La storia ha un valore relativo per ognuno di noi, la storia diventa ci
che si fa ora, perch aver riserve allora sul manipolare la nostra storia?
Cambiare una piazza veramente uccidere la memoria storica di un paese?
O potrebbe anche significare infondere nuova linfa alle sue strade. Mi dispiace
constatare che un parametro di giudizio dell'architettura sia, per molti di noi,
l'abitudine alla forma, per quanto zoppa essa sia.
(Silvio Carta
- 17/5/2005)
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Commento 909 di Alessandro Ronfini del 01/06/2005
Credo che la la malinconia sia il peggior male d'Italia. Quella malinconia che fa rimpiangere ai nostri vecchi (e purtroppo anche ai miei genitori) i bei tempi, in cui si giocava per strada, in cui "qui era tutta campagna" in cui si faceva il bagno nel fiume e, non dimentichiamolo, in cui esistevano ancora le mezze stagioni.
Questo sentire comune, continuamente ripetuto nelle orecchie di noi giovani (sono un giovane studente 21enne) crea una sorta di disprezzo verso il tempo in cui viviamo, et del caos, dell'industrializzazione selvaggia, della distruzione della natura e del ciclo delle stagioni.
Cos molti adulti d'oggi nutrono, anche se spesso non l'hanno mai vissuta, o hanno solo immaginato di viverla, una nostalgia verso "l'et dell'oro" che si tramuta in un desiderio di vedere costruita la propria casetta in mezzo ai campi dotata di tetto a falde, di giardino con l'erbetta ben curata (speriamo senza nani...), di pozzo e finestre con le imposte verde scuro, anonima, senza tempo e qualit come mille altre a lei uguali.
Lo stesso vale per chi nei suoi sogni ha il suo appartamentino di citt con la lampada-gondola sopra la tv: gli serve un ricordo su cui appoggiarsi, da cui ricavare sicurezze, come pu essere un parco, un fontanella, una brutta aula della sua brutta e vecchia scuola.
E non credo che tutto ci nasca da ignoranza ma nemmeno dalla paura che il nuovo sia brutto (anche se la realt di numerose architetture dalla forma e dai colori molto discutibili danno una forte scossa a questa argomentazione): la paura piuttosto quella che il nuovo vibri un colpo violento alla pacifica e rilassante stagnazione che il nostro paese sta vivendo. Abbiamo un'economia che ha sempre funzionato basandosi su piccole industrie con poche aspirazioni di crescita, su un costante flusso di turisti, su prodotti tipici secolari, sui piccoli agricoltori, accontentando bene o male la maggior parte della popolazione: aprirsi al nuovo vuol dire stravolgere questo comodo sof di routine, stravolgere il proprio lavoro cercando nuove soluzioni impegnative, stravolgere le proprie abitudini, i propri ritmi. E' un qualcosa che pochi sostengono e tanti cercano di evitare come fosse il diavolo in persona.
Spero che il periodo di crisi nel quale siamo entrati oggigiorno dia una indispensabile scossa al nostro paese, che nasca un rinnovamento che si fondi anche sull'architettura (cos che questa venga riconsiderata come immagine della societ che si evolve) cosicch per chi sta entrando nel mondo vi siano maggiori possibilit di quante, a quanto pare, ne offra il presente.
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Commento 921 di vilma torselli del 29/06/2005
Ci che Silvio Carta descrive ha una precisa denominazione scientifica, si chiama kainotetofobia, paura dei cambiamenti e delle novit, di tutto ci che non noto, compreso e riconducibile a canoni consolidati. E una paura che ha anche i suoi aspetti positivi, poich attiva utili meccanismi di difesa, ma che ha talvolta innegabilmente frenato il corso della storia e della scienza.
Il nuovo ci fa temere linvalidazione delle credenze assimilate e divenute parte della nostra identit individuale e collettiva ed averne timore un innato ed inevitabile retaggio antropologico, la ripetizione del comportamento del nostro antenato preistorico che, indifeso davanti allimprevisto a causa della propria ignoranza, temeva ogni novit ed ogni dirottamento da una realt nota e quindi dominabile, che significava spesso la garanzia della propria sopravvivenza.
Le reazioni emotive che regolano la nostra vita non sono molto differenziate, sono tuttavia sottilmente modulate ed adattate ai vari contesti, cosicch i sentimenti indotti da un paesaggio urbano o da un pezzo di citt non sono diversi da quelli che entrano in gioco nei rapporti tra esseri umani, per questa via che una piazza pu associarsi alla sacralit del ricordo di mio nonno.
Il termine ricordo, infatti, deriva etimologicamente dal latino cor-cordis, che vuol dire cuore, ad indicare la valenza emozionale dellatto del ricordare, non confinabile entro i limiti di una confortante ragionevolezza, cosicch la reazione empatica al ricordo di mio nonno si pu estendere, seppure irrazionalmente, ai luoghi che con lui ho frequentato, ad una piazza o ad oggetti inanimati che in qualche modo gli associo.
Una persona che conosco e che da decenni vive a New York, quando ricorda la sua citt natale, Perugia, fa immancabilmente riferimento ad unantica struttura, la torre degli Sciri, che ha visto passare generazioni di nonni e di nipoti e che resta tuttora per quella persona imprescindibile riferimento spazio-temporale, com destino di tanti elementi architettonici o urbanistici, realt ferma e concreta nel mutevole divenire della vita. Ebbene, se tornando a Perugia quella persona trovasse al posto della sua torre un bel campo di margherite, vogliamo negargli il diritto di restare delusa, di rimpiangere in qualche modo quello che non c pi?
Ci che caratterizza larchitettura, o una sistemazione urbanistica, unorribile vasca per i pesci rossi o una fontana del Bernini , fra laltro, la fisicit, la concretezza, unesteriorit inequivocabilmente definita, solidamente fissata nel cemento, nella pietra, nel ferro, sar per questo che, col tempo, ci scopriamo incredibilmente affezionati al loro aspetto, divenuto noto e familiare come quello di una persona cara.
E sar pure per questo che un grande della passata generazione ha lasciato scritto Amate larchitettura, fisicamente, come si amano le persone, al punto da rimpiangerne la scomparsa.
Ci non significa che si debba lasciare il mondo cos com, il mutamento lessenza della vita, ma significa che ogni cambiamento, leradicazione di un passato rassicurante perch noto, la distruzione di punti di riferimento conosciuti , comportano unelaborazione simile a quella di un lutto, la presa di coscienza della necessit e dell'inevitabilit del cambiamento e laccettazione di un nuovo stato delle cose, in virt di quelladattamento della psiche alla variet delle situazioni di cui dicevo prima.
vecchio non necessariamente bello, infatti, solo vecchio, con la sua carica di significati positivi e negativi. Cambiamolo, senza scandalizzarci se, comunque, non sar unoperazione indolore.
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