L'architettura corre un pericolo mortale
di Giancarlo Carnevale
- 7/5/2001
Sono lusingato dall'interesse, occasionale, che il mio breve
testo ha richiamato. condivido anche, ovviamente, lo slancio antiaccademico
che sostiene l'intero scritto di Sandro Lazier, meno la leggerezza con
la quale mi assegna un ruolo o un'opinione, anche contro l'evidenza del
testo stesso. Prima di annoiare con le puntigliose precisazioni ed i distinguo
(ho scritto così, ma non cosà e, occhio, c'era l'avverbio
o l'aggettivo che voi non avete riportato), provo semplicemente a chiarire
quanto apparso ambiguo. Aggiungo ancora che sto occupandomi della "sovresposizione"
nell'immaginario architettonico popolare da quasi dieci anni, raccogliendo
repertori iconologici di grande fascino, tanto da farmi pensare alla pubblicazione
di un numero unico di Casabrutta discontinuità, ma ne potremo riparlare.
Certo che la grande architettura popolare e la grande architettura sono
una sola famiglia, e tali scambi non riguardano solo il M.M., ma la mediocre
architettura inbarbarita, dagli architettini e dagli ingegneruzzi, non
parlo dei geometri che sono ancora più suscettibili, cosa è
per Lazier? Già Gadda, nel suo celebre passo (La cognizione del
dolore) ci metteva in guardia: la inevitabile e dolente volgarità,
non è di per sè democrazia, la violenza di espressione può
esserlo se fosse contro, se fosse anticonformista, ma noi vediamo solo
un desolante conformismo del cattivo gusto (per l'appunto i nuovi modelli
estetici che mi preoccupano: non esistono solo modelli estetici buoni,
esistono anche quelli pessimi, di fronte ai quali, un uomo di cultura
farebbe bene ad allarmarsi) . Ahimé, in linea generale sì,
esiste la possibilità di dire questa è buona architettura
e questa è mediocre, (soprattutto quella orribile è riconoscibile
con ragionevole certezza) ma non sempre, ed a volte il tempo, con la sua
cottura ci smentisce, ma di certo non abbiamo regole per produrre buona
architettura (mentre ogni buona architettura ha regole, ma anche questo
argomento ci porta lontani). Però è così certo l'autore
che non esista il cattivo gusto e la trivialità? L'epoché,
la sospensione del giudizio non è sempre la linea più coraggiosa
che porta alla democrazia.
Ed è vero poi, concordo, che esiste anche una oligarchia che impone
dei modelli estetici dall'alto, che attraverso riviste e media promuove
autori o stili, che produce un linguaggio architettonico remoto ed estraneo
al gusto popolare (sì, tutto ciò l'ho anche scritto nello
stesso pezzo di cui si parla) ma questo è l'altro polo contro cui
battersi.
Direttamente influenzati dalla committenza, ho scritto, ed è veramente
ambigua l'espressione, faccio ammenda: intendo però dire che quando
l'architetto diventa un medium acritico, quando non mette sul piatto le
proprie competenze e responsabilità, sta semplicemente riconoscendo
la propria prescindibilità nel processo edilizio, ed è questa
assenza che io credo non sia ancora possibile sancire. La firmitas e l'utilitas,
sono in questione, caro Lazier, non la venustas che è una conseguenza,
e quelle dovremmo governarle noi, se ne fossimo capaci...
D'accordo sullo scollamento della istituzione dalla realtà, aggiungo
che le facoltà di architettura tendono ad allontanare sempre più
dalla materialità, dalle regole della costruzione, per proporre
speculazioni rischiose in ogni settore, a partire proprio dalla cosiddetta
Scienza delle costruzioni, ma questo è un altro discorso, che mi
piacerebbe riprendere in un'altra occasione.
Condivido che la presunzione della verità porta molti di noi ad
attribuire ad altri atteggiamenti ed opinioni che vorremmo avessero e
che non hanno, ma questo non riguarda me...
PS Il titolo è una opinione che mi espresse Ciriani
qualche anno fa, e che condivido sempre di più...
(Giancarlo Carnevale
- 7/5/2001)
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