Sabato 31 ottobre 2009, nel Forte di Bard in Valle dAosta, antico complesso
militare ora restaurato e trasformato in importante polo culturale, si
tenuta una tavola rotonda organizzata dal G.A.C. (Giovani Architetti del Canavese)
sul tema Architetti, Idee Giovani per la Professione. Presenti in
qualit di relatori Corrado Binel, architetto di Aosta, Enrico Giacopelli,
architetto Torinese; moderatore Graziano Pelagatti, Presidente dellassociazione
G.A.C. Presente in sala Riccardo Bedrone, Presidente dellOrdine degli architetti
di Torino; assente ingiustificata Daria Cini, Presidente dellOrdine degli
architetti di Aosta.
Su invito di Corrado Binel ho partecipato allincontro perch stimolato
dalla possibilit di un dibattito su temi che spesso il nostro giornale
ha affrontato con trasparenza e decisione: linguaggio e tradizione, universit,
concorsi e ordini professionali. Tanti temi, corposi, impossibili da risolvere
in una mattinata, ma sentire laria che tira sul fronte fa sempre bene.
Inizia larchitetto Bedrone il quale, convinto che allassemblea interessino
pi le sorti degli architetti che quelle dellarchitettura, ci illustra
pregi e difetti, speranze e delusioni di un Ordine sempre pi nudo e oggettivamente
inadeguato di fronte alla richiesta dellunica prerogativa che sola potrebbe
giustificarne la sopravvivenza: perseguire la qualit dellarchitettura
con gli strumenti, finora insolventi, necessari a realizzarla.
Per Bedrone, e per tutto il sistema nazionale degli Ordini, la risposta dovrebbe
darsi nellaggiornamento professionale degli iscritti. Una specie di patente
a punti per cui pi ci si forma, pi si bravi e degni dimprimatur.
Il talento? Non incluso; ma non lo mai stato: tutti uguali davanti
alla legge. E la formazione, chi la dovrebbe fare? Gli architetti, ovviamente.
E chi forma, dovrebbe a sua volta essere formato? Renzo Piano, per esempio, da
chi dovrebbe essere formato? E una volta in forma, chi dovrebbe
egli stesso formare? Siamo in un paradosso non dissimile da quello molto pi
famoso del barbiere di Russell. Lincongruenza evidente e inevitabile:
se lattributo tecnico richiesto da questa professione pu effettivamente
ricorrere a regole e protocolli provenienti da pi soggetti, come avviene
in campo medico o scientifico in genere, al contrario il suo corredo artistico,
parimenti necessario affinch larchitettura si realizzi con qualit,
nega ogni tipo di convenzione, pena uninevitabile deriva, prima ideologica
e poi autoritaria. Arte e disciplina concordano in regimi dispotici, ma litigano
volentieri in contesti liberali e democratici.
Dagli Ordini, quindi, nessuna idea giovane e nuova; anzi, solo un tentativo di
restaurazione nellultimo anno di governo conservatore, tentativo finora
decisamente contrastato dal tenace Presidente dell'Autorit garante della
concorrenza e del mercato Antonio Catrical, al quale va il nostro sincero
applauso.
Corrado Binel, pi attento ai temi di concetto, riporta la riflessione
intorno a tre punti, sicuramente pi interessanti perch centrali
e necessari. Parlando di giovani architetti, termine retorico
che, concordo con lui, andrebbe sostituito con emergenti - let
anagrafica non conta - introduce il tema del linguaggio: Appartenere
quindi alla schiera emergente inoltre un condizione trasversale,
che unisce le generazioni in un obiettivo comune: quello della qualit
dellarchitettura; ma la qualit dellarchitettura che cos
se non la ricerca di un linguaggio capace di interpretare il senso del tempo
e del luogo in cui viviamo?
Concordo totalmente. Il linguaggio lunica risorsa e il solo
strumento in grado di esprimere qualitativamente larchitettura. Interpreti
del luogo e del tempo presente, i suoi segni devono essere il riferimento principe
di ogni architetto, prima ancora della tecnica costruttiva, della storicit,
della psicologia, dellurbanistica, del clima, del bilancio energetico
e quantaltro le mode dei tempi propinano, precipitando le personalit
pi fragili nella confusione totale. Letica dellarchitetto
tutta e solo nella sensibilit espressiva della sua matita e,
senza etica, non c qualit che tenga. Se no facciamo un
altro mestiere.
Secondo punto: Essere rivali nella ricerca della qualit,
essere rivali nel confronto culturale e delle idee, confrontarsi sui risultati
e sui successi significa essere attori di un mondo di valori positivi. In quel
mondo a cui a volte guardiamo persino con dolore non sono pi bravi di
noi. Lo sono diventati, perch hanno scelto di sfidarsi sul terreno delle
idee e non sul terreno dei fatturati o addirittura su quello delle vanit
che rappresentano il gradino pi basso della dignit umana perduta.
Anche qui concordo totalmente. Il confronto, aperto e senza preclusioni formali,
lunica possibilit di mettere alla prova teorie e concetti.
Nessuna verit vera sempre, diceva K. Popper, senza preoccuparsi
dellantinomia presente nella sua stessa affermazione. Antinomia che oggi
ci costringe a riflettere sullinconsistenza delle verit che hanno
governato la scienza, larte e la politica di ieri; che ci suggerisce
un diverso motore di civilt: un produttivo sentimento di precariet
e dinsicurezza; civilt che, quindi, si nutre di errori e si alimenta
nel dubbio, nellansia, nella crisi di sistemi e di valori. Oggi sappiamo
che lerrore genetico la causa prima dellevoluzione e
della diversit: crisi che diventa valore. Questo, secondo Bruno
Zevi, che riprendeva unacutissima riflessione di Jean Baudrillard,
il senso ultimo dellidea di modernit, anche in architettura.
Allora, anzich lagnarsi dessere in troppi, incompresi e canzonati
da una committenza imprigionata dal timore della diversit nelle false
certezze della tradizione, violentati da uninformazione mercantile rivolta
alla pura immagine, giunta al dettaglio pornografico, dedita esclusivamente
alla promozione delle mode e incurante della critica, beffati da una politica
legislativa che scoraggia le novit e premia le abitudini e le clientele,
proviamo a trasformare questa profonda crisi che ci tocca sul piano personale
e professionale in ricchezza, in impegno profondamente moderno,
rischioso nella ricerca di soluzioni inedite ma autorevole perch scaturito
nel profondo, posto ben sotto lo strato mentale del pregiudizio, della paura
e della vanagloria. So che questa condizione comporta rinunce a incarichi facili
e parcelle sicure. Ma rinunce soprattutto al conformismo consolatorio, al conforto
del balbettio famigliare e della caricatura benevola della storia, in tutte
le sue varianti. Rinunce certo, ma se non si soffre un po, che crisi
?
Ci detto, occorre riconoscere che il luogo migliore di confronto delle
idee darchitettura continua a essere il concorso. Due domande, tuttavia,
si rendono necessarie: con quali criteri e chi sceglie chi giudica? Una qualsiasi
persona affiderebbe a chi non ha mai incontrato lincarico di progettare
la propria casa?
Sono domande sensate e semplici la cui risposta implica la partecipazione palese
ai concorsi pubblici, come palese e pubblica dovrebbe essere la valutazione
dei progetti da parte dei commissari, unico modo per dar giudizio anche dei
giurati. In caso contrario il concorso rischia dessere solo un alibi
per celare intrecci e traffici ben radicati nel vasto continente della rendita
culturale, che va dalleditoria alluniversit, passando
per gli Ordini professionali.
Terzo punto: Fare gli architetti significa fare politica e cultura.
Questaffermazione vera quanto confusa e rischiosa. Fa supporre,
infatti, che ci sia unarchitettura di destra e una di sinistra, unarchitettura
conservatrice e una progressista. Il che evidentemente molto vero.
Ma si d il caso che molti intellettuali di sinistra ragionino come architetti
di destra e che architetti di destra, a dire il vero pochi, propongano progetti
molto di sinistra. Larchitettura una bestia strana che tiene
insieme conservatori di destra e di sinistra, per cui molti progetti di destra
vengono promossi da eminenti personalit della sinistra.
Sullindole democratica dellarchitettura moderna si detto
e scritto molto, non sempre adeguatamente. Tuttavia non cos
arduo comprendere che unarchitettura composta dallesterno, posata
e monumentale, oppure pittoresca ma con tutte le sue finestrelle in armonia
col prospetto, costringa chi ci abita a subirne lordine e la disciplina;
mentre unarchitettura apparentemente disordinata e casuale sicuramente
concede a chi labita di vedere secondo desiderio e necessit,
senza destinare nulla allarbitrio del prospetto. La prima evidentemente
unarchitettura imposta, quindi di destra; la seconda, pi libera,
di sinistra. Larchitettura popolare spontanea, tipica delle Alpi soprattutto
occidentali, sintesi tra necessit interne e risultato esterno,
una sublime architettura di sinistra, oggi paradossalmente difesa da accaniti
conservatori di destra che in maggioranza votano a sinistra. I palazzotti neoclassici
dellottocento, sorta di esperanto architettonico presente in ogni luogo
della terra, come le multinazionali, tanto cari a molti intellettuali di sinistra,
sono architetture di destra. Il dialetto, in architettura, sicuramente
di sinistra, lesperanto di destra. Ma il dialetto tale perch
strumentale alla cultura e alle necessit di un luogo. Se cambia la
sua finalit, se da strumento diviene riferimento formale, inevitabilmente
si scivola nel balbettio del tradizionalismo, perch senza adeguare il
linguaggio, senza lintroduzione di neologismi si finisce nellimpossibilit
di dare risposte ad una cultura che inevitabilmente cambia. E il balbettio
profondamente di destra, nella sua pretesa di conservare ad ogni costo lidentit
dentro un barattolo impermeabile, come se fosse marmellata.
Ma torniamo allincontro.
Seguono gli interventi di Enrico Giacopelli che richiama lattenzione
degli architetti sulla necessit di allargare il proprio campo dazione,
in un mondo che diviene sempre pi accessibile grazie alle tecnologie
della comunicazione.
Graziano Pelagatti apre il dibattito tra i presenti. Sconforto, preoccupazione,
per una situazione difficile anche per la crisi economica in atto. Disillusione,
comunque; e voglia di novit per uscire da una situazione ormai insostenibile
professionalmente.
|
|