Nellanno scolastico 1967/68 frequentavo le scuole superiori di Aosta. Quali, sono un fatto mio privato: mi sono deformato culturalmente da solo e intendo mantenere incontaminato questo privilegio.
Provenivo da tre anni di collegio, passati dai Salesiani di Torino in via Medail. Tre anni scanditi da premi finali e medaglie per meriti di studio e disciplina. Il terzo anno, addirittura, fui premiato dallex allievo Oscar Luigi Scalfaro e, questo, per converso, avrei dovuto capire essere un segno di predestinazione allinsofferenza verso le Istituzioni. Dopo quel premio, infatti, mi chiesero darruolarmi tra i Salesiani, ma rifiutai.
Per raggiugere la scuola di Aosta, che distava circa unora di treno, viaggiavo in compagnia dei ragazzi che la locomotiva caricava di stazione in stazione. Erano gli anni dei pantaloni a zampa di elefante e dei complessi musicali. I Rolling Stones cantavano Ruby Tuesday e si ascoltava di nascosto il Volume I di De Andr. Piansi alla notizia della morte di Gigi Meroni, la farfalla del Torino, un calciatore con la testa della beat generation.
Non avevo mai provato un tale senso di vitale libert. Questo era il clima allarrivo del sessantotto.
Sotto le Alpi Graie il sessantotto arriv allimprovviso, ma gi carico dideologia. Ideologia politica di quelli che lo volevano cavalcare. Il clima che sera creato aveva per laria dessere aperto, partecipativo. Assemblee e sfilate mattutine sostituivano le ore di lezione. Assemblee dove si poteva democraticamente prendere la parola ma dove, infine, parlavano sempre gli stessi. Tanto che al terzo cazzo! cio, nel momento in cui decisi che le mattinate al biliardino del bar di fronte erano meglio rappresentative di quel senso impareggiabile di libert e autodeterminazione che avevo scoperto da poco. Non mi aveva intruppato Oscar Luigi, figuriamoci larmata rossa valdostana.
Mentre The Beatles cantavano Oblad oblad e Celentano, con Azzurro di Paolo Conte, riempiva le sere destate, la fantasia al potere trovava in me una versione autenticamente anarchica e genuinamente individualista, che avrebbe sicuramente formato luomo che sono adesso. Questo aspetto, che per molti potrebbe essere considerato un limite, ha per avuto il merito dun grande pregio. Nessuno, allora, individualista o meno, pensava dessere diverso dagli altri. Le diversit culturali, sociali o religiose erano seppellite dalluniversalit della musica e dalle libert che tutti i giovani pretendevano a gran voce, la libert sessuale sopra tutte le altre. Qualsiasi valore, condiviso o meno, aveva il grande pregio dessere universale.
Se posso dire daver vissuto un momento in cui tutti gli uomini navigavano sulla stessa barca, quello stato il periodo sessantottino. Bianchi, neri, gialli, atei o religiosi, per me, e per tutti, sera tutti fratelli.
Poi per le cose cambiarono e qui vengo al punto che giustifica questa lunga e personale premessa.
Cambiarono repentinamente, come tutte le cose che successero in quegli anni, e le lotte per le libert personali si tramutarono presto in lotte di partito, in ideologie schierate che implicavano anche il modo di abbigliarsi. Trovai, durante gli anni dell'universit, le stesse persone che contestavano le cattedre, dietro le cattedre. Non predicavano pi luniversalit dei valori ma il loro esatto contrario: le differenze culturali, le specificit. Erano gli anni del pensiero debole, in cui lidentit del pensiero si organizzava intorno al pensiero dellidentit. Questione che intesi subito come un voltafaccia reazionario e che, paradossalmente, proveniva da quella che consideravo la parte migliore del corpo culturale del paese, tanto da sentirmi inadeguato nel contestare ci che ritenevo un tradimento bello e buono. Un voltafaccia il quale, compresi pi tardi leggendo qualche libro di storia, nutriva radici profonde, soprattutto in un paese che non aveva mai abbandonato del tutto lidea della conservazione. La rivoluzione razionalista, da noi, dovette fare subito i conti col fascismo piacentiniano prima e con la torre Velasca milanese poi. A parte qualche sperimentazione solitaria, qualche boccata daria nuova dellarchitettura organica promossa da un infaticabile Bruno Zevi, appariva evidente che la puzza di storia avrebbe finito per rigenerare il peggio del tradizionalismo travestito di modernismo. Il milanese Aldo Rossi, terminale principale di questa che io considero una effimera deriva culturale, in chiave palesemente caricaturale e riprendendo temi monumentali del ventennio fascista, condannava larchitettura italiana ad un ruolo essenzialmente scenografico, svuotato dogni potenziale dinnovazione di sostanza. Lassurda convinzione della supremazia dellurbanistica sullarchitettura, infine, legittimava lidea che la sostanza dellarchitettura, di fatto, risiedesse allinfuori di essa.
Ora abbiamo davanti agli occhi tutto il ciarpame storicista prodotto in questi anni fecondi didee al contrario. Anni dove larchitettura, che arte a tutti gli effetti e quindi, al di l del suo valore intrinseco, creatrice e formatrice di consenso, ha formato consenso. Un consenso reazionario, introverso, pronto ad esaltare ogni differenza, ogni peculiarit, in un delirio identitario che esalta, nel nome della diversit, ogni meschineria culturale, razzismo compreso. Il mondo oggi pi che mai ha bisogno di ritrovare i valori che uniscono e di abbandonare quelli che dividono. Valori universali, che sono sempre gli stessi e appartengono a tutti gli individui, senza distinzione di genere, razza o religione.
Lesaltazione del particolare, del peculiare, dellitalianit e altre goffaggini retoriche riferibili allidentit dei contesti, hanno prodotto i disastri che conosciamo sul piano architettonico e sociale, le cui ripercussioni politiche hanno trovato nel localismo regionale o nazionale il loro sfogo naturale.
Questo esito lo si poteva immaginare gi alla fine degli anni settanta del secolo scorso.
Dovrei, quindi, aspettare che qualche luminare dallora chieda venia, ma non sono cos ingenuo.
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