Le recenti discussioni sulla legittimit o meno dalcune posizioni critiche, hanno
non poco contribuito a svelare aspetti confusi dellatto interpretativo e di quello
valutativo, principali rispetto al giudizio critico. Fare critica soprattutto
cercare di capire e dare giudizi di valore. Se questi sono sintomi di verit o
falsit, resta nelle intenzioni di chi li dice ma, certamente, non ha influenza
il modo con il quale i giudizi sono esposti se con il silenzio, o lironia o
il disprezzo da un lato; la retorica o lesaltazione dallaltro essendo questione
principale che il giudizio sia espresso e motivato.
Guido Guglielmi, professore di letteratura italiana a Bologna, scomparso nellagosto
del 2002, si occupato in modo profondo e originale del ruolo della critica,
della sua storia e delle sue prospettive. Nello scritto (reperibile sul web) critica
della critica - che ripropongo alla lettura per intero e con le parti pi
interessanti evidenziate in grassetto egli svolge in modo completo e ricco di
riferimenti il tema del giudizio critico relativo alle opere di letteratura. Come
il lettore potr agevolmente constatare, il trasporto degli stessi concetti nellambito
dellarchitettura del tutto naturale e conveniente.
Guido Guglielmi
La critica della critica
In una conferenza tenuta a Jena nel 1924 Paul Klee entra nel tema dei significati sociali dell'arte, e spiega perch il linguaggio della pittura si allontanato dal comune sensorio degli uomini. Klee dice che ci accaduto perch non c' pi e non c' ancora un pubblico dell'arte. Gli artisti non hanno un popolo. E dunque non possono produrre opere che abbiano una portata comunicativa, e non solo una funzione formale e costruttivista. Ce ne manca ancora la forza, a noi che non abbiamo il sostegno di un popolo, concludeva Klee. E aggiungeva: Ma un popolo noi lo cerchiamo, e i primi passi in questo senso li abbiamo fatti al Bauhaus. (E che la gente non si aspetti pi nulla dai poeti, lo avevano gi detto i poeti). In sostanza il divorzio tra il lavoro degli artisti e le attese del pubblico, che un fenomeno della modernit, non di questa o quella poetica, ha obbligato gli artisti a un lavoro sperimentale. Sia in direzione della distruzione dell'arte, praticata dalle avanguardie, sia, al contrario, in direzione di un'arte pura. Ma non senza una nostalgia del senso comune (Ma un popolo noi lo cerchiamo). Dietro il rifiuto della figurativit o del significato c' la ricerca di una forma non compromessa con le lingue usurate dell'arte. Ma inevitabile che il medium linguistico, proprio perch un medium, sia pubblico. L'arte, che si voglia o no, resta intimamente legata alla comunicazione, nel momento stesso che la rifiuta. Vi resta legata in forma negativa, e non cessa di richiederla. Ma doveva rivendicare propri valori, se voleva sopravvivere. Klee faceva appello alla categoria del possibile contro la categoria del reale. Non certo mia intenzione - scriveva - di ridare l'uomo cos com', ma solo come potrebbe anche essere. E venendo al secondo dopoguerra, di grado zero della scrittura parlava Roland Barhes. La critica restava una componente essenziale dell'arte. E c' stato negli anni Sessanta e Settanta del secolo trascorso un intenso scambio tra teorici, critici e scrittori. Teorici sono diventati sia i critici che gli scrittori. La poetica ha voluto sostituire la poesia, e la teoria dell'arte l'arte. E questo sotto l'effetto di un programmatico sperimentalismo che, in polemica con ogni forma di naturalismo, ha puntato sulla linguisticit dei testi, sospendendo i significati della lingua. Ma a un certo punto, in un clima di generale 'revisionismo', intervenuta una sfiducia nei progetti teorici. E l'attacco portato contro la teoria ha avuto di mira la critica e le poetiche moderniste. Nello stesso tempo divenuta dominante la categoria della fruizione estetica. Con una spartizione di territori la verit stata riservata alle scienze (anche la filosofia significativamente caduta in sospetto) e alle arti il godimento, di cui arbitri non potevano non essere i lettori. Quello che un effetto dell'arte, stato preso come la sua realt. E ci in nome di un diritto della ricezione. Il fatto per che oggi non si osserva una variet di scelte e apprezzamenti individuali, che del resto in ogni tempo non mai stata arbitraria, ma sempre riconducibile a orientamenti generali di gusto; e si osserva invece una massiccia uniformit di comportamenti, promossa dal mercato. Si assiste cio al fenomeno che le differenze si attenuano proprio nel momento in cui l'enfasi cade sulla libert del consumatore o del lettore. Mentre viene a perdere centralit quell'attivit che da due secoli si chiama critica. E su questo punto conviene interrogarsi.
Ma proviamo a dire che cosa s'intende per critica. Per porre subito il problema, si potrebbe cominciare risalendo indietro a una pagina assai nota del De Sanctis. La pagina si trova in un saggio del 1855 sulla versione di Lamennais della Divina commedia, e tratta proprio della critica. Scrive De Sanctis : La critica la coscienza o l'occhio della poesia, la stessa opera spontanea del genio riprodotta come opera riflessa dal gusto. Ella non deve dissolvere l'universo poetico; deve mostrarmi la stessa unit divenuta ragione, coscienza di s stessa. I due termini-chiave sono qui genio e gusto. L'artista - il genio - kantianamente opera spontaneamente, in piena autonomia creativa. Il gusto la capacit di giudicare. Ma continuiamo la lettura. De Sanctis stabilisce una doppia correlazione. La prima tra Dio e l'artista, e parallelamente tra il mondo e l'opera. L'altra tra filosofia e critica. La filosofia la creazione ripensata o riflessa; e la critica compie lo stesso ufficio nei confronti dell'opera. De Sanctis scrive: Dio crea l'universo, il filosofo il critico di Dio. La parola forte in entrambi i casi critica. Filosofia come critica e filologia come critica. Che tipo di linguaggio questo? Naturalmente evidente la sua derivazione idealistico-romantica. Le categorie del discorso sono (per quanto trasformate) hegeliane. Il Dio trascendente diventato potenza di affermazione del mondo, ragione immanente, verit che si realizza nelle figure della storia. E dalla parte dell'arte i nuovi concetti sono immaginazione produttiva (non pi riproduttiva e mimetica), espressione, sentimento, rifiuto di autorit e di canoni tramandati. E la retorica, contrapposta alla storia (al nudo contenuto), infatti il bersaglio polemico, come si legge subito prima dei passi citati: La rettorica ti d la pura forma, e, segregata dal soggetto, degenera in regole astratte, spesso arbitrarie e accidentali, sempre estrinseche: la storia ti d il puro fatto, il contenuto astratto della poesia, la materia grezza e inorganica, comune a tutti i contemporanei. Erede della rivoluzione romantica nella letteratura, De Sanctis insiste sull'individualit dell'opera: la materia dell'opera deve essere signata, e non comune a tutti i contemporanei. E romanticamente l'individualit quella del mondo passionale-ideologico - l'esempio Dante - ma lavorato e trasformato in un tutto organico. E cio divenuto forma, che poi vuol dire innalzato a significazione universale. Retorica e generi letterari sono invece per De Sanctis fenomeni estrinseci, impacci imposti agli artisti o che gli artisti vittime del loro tempo si imponevano. E, ancora romanticamente, non poteva qui non cadere il nome del Tasso: Prendete i giudizi famosi sulla Gerusalemme liberata, leggete il giudizio dello stesso Tasso. Unit d'azione, semplicit della favola, il decoro, il costume, l'affetto, e pi l'elocuzione che allora chiamavasi 'stile' e la lingua, ecco di che si occupava la critica. De Sanctis ragiona secondo uno schema storicistico classico, che assume la storia come un processo progressivo di riappropriazione del senso (di riappropriazione di s del genere umano), e legge la storia delle forme come storia di liberazione delle forme e dell'arte. qui l'indice storico - tutto ottocentesco - del suo discorso. Quelle regole avevano in verit prodotto l'arte che diciamo classica, e l'avevano resa possibile. Non erano state imposizioni o convenzioni esterne. Erano state proprie di un mondo codificato qual era stato in tutte le sue forme il mondo feudale o ancora feudale. Ma giustamente De Sanctis le giudica vuote, perch tali erano diventate. Ed era infatti scomparsa la loro base storica.
Ma che cosa poteva prendere il posto delle convenzioni se non la critica? Non erano scadute soltanto convenzioni usurate: era scaduta la possibilit di nuove convenzioni. E la critica diventava un principio non solo del giudizio, ma dell'arte stessa. De Sanctis porta l'esempio del Manzoni dei Promessi sposi che si ferma a riflettere sulle situazioni del romanzo. Col Manzoni il mondo si deconvenzionalizza e problematizza. L'elemento prosaico - il brutto - diventa una componente ironica dell'arte. tolta la frontiera tra poesia e prosa. Ed un fatto tutto moderno, questa connessione di arte e critica che De Sanctis segnala. L'opera che non ha modelli e deve inventarseli si nutre dunque della critica, e la critica prosegue l'opera da un punto di vista che non pi quello dell'artista. Essa la stessa concezione poetica guardata da un altro punto. E l'altro punto la prospettiva di chi giudica. Il quale deve riprendere il gesto dell'artista, sviluppare la critica interna all'opera, elaborare una propria poetica. Deve costituire l'altro polo dell'opera. Ma fermiamoci su un punto: la critica deve ricostruire l'opera senza dissolverla. L'opera ci d un'immagine del mondo nella lingua dell'arte. E il critico la riprende concettualmente. La critica per altro non filosofia. concettuale e non concettuale. Non n assoluto pensiero (di cui Hegel era il grande modello) n assoluta arte, ma tiene dell'uno e dell'altra, scrive De Sanctis. intermedia tra filosofia e arte. Deve procedere per concetti, ma deve anche continuamente misurarsi con un oggetto che non si risolve in concetti. La critica come saggio, come avrebbe detto Lukcs, che non ha l'intenzione sistematica delle filosofia, e vive delle proprie occasioni (di quelle occasioni che sono le opere).
De Sanctis fa della critica un rapporto tra i due poli dell'opera e di chi giudica. La critica prolunga l'opera, senza abolire la distanza tra la poiesis e l'aisthesis. E a questo punto potremmo estendere il discorso (allontanandoci dal De Sanctis) chiamando in causa il concetto bachtiniano di esotopia, che un poco il contrario dell'isotopia. L'isotopia con la sua iterativit di tratti semici garantisce l'omogeneit della sequenza sotto l'aspetto semantico o concettuale. L'esotopia introduce un'asimmetria, una non corrispondenza, una relazione di esteriorit (l'altro punto) che dialettizza la sequenza: la istituisce come comunicazione, ma non la risolve mai interamente in comunicazione. L'opera cio resiste alla concettualizzazione. Quest'ultima deve rispettarla (desanctisianamente: non deve dissolverla). La sua opacit non solo non pu essere vinta, ma un errore voler vincerla. Ed tanto meno vinta se si dice che ha il senso che il lettore le attribuisce, perch si mancherebbe la sua trascendenza, la sua differenza fondamentale, se ne farebbe un oggetto di consumo, o si scambierebbe un processo psicologico (di identificazione o di proiezione) per un processo di conoscenza. Si scambierebbe quello che solo un effetto sul lettore per un'esperienza dell'oggetto. Si verrebbe meno a quel principio della dialettica, o della comunicazione tout court, che vuole che ogni relazione a s sia mediata dalla relazione con l'altro. Allo stesso modo che benjaminianamente l'opera esige la traduzione, ma non si trasmette mai interamente nella traduzione, cos la critica traduce l'opera in comunicazione. Ma la comunicazione non l'esaurisce (e annulla). La sua singolarit pu essere infatti percepita, incontrata, scoperta - un aistheton -, mentre viene a perdersi (si dissolve) nel concetto, necessariamente generalizzante, che ce ne possiamo formare. E si tratta in fondo dello stesso fenomeno che si registra in ogni comunicazione, e tanto pi quando, come nel nostro caso, proprio la sua non saturabilit a costituirla. I soggetti di una situazione comunicativa non sono infatti surrogabili: l'uno non pu prendere il posto dell'altro in ci che gli pi proprio. E non quindi possibile intendersi senza anche fraintendersi. In ogni intendersi resta cio una parte non trasparente, una differenza, una divergenza. E proprio questa divergenza mentre rende necessario il comunicare, altrettanto necessariamente deve lasciarlo aperto e incompiuto.
Torniamo adesso agli anni Sessanta e Settanta In quegli anni fenomenologia, strutturalismo, psicanalisi, marxismo riformulano il concetto di letteratura. Gli ambiti e gli orientamenti teorici sono assai diversi, e assai diversi gli esiti, ma in ognuno di essi ripensato, come scrive Antoine Compagnon nel Demone della teoria, il rapporto dell'opera con l'autore, il lettore, il mondo, lo stile, la storia, il valore. Ognuna di queste nozioni passata al vaglio della teoria. E uno dei fenomeni su cui si concentrata la teoria della letteratura nel Novecento, dai formalisti agli strutturalisti fino alla problematizzazione delle tesi strutturaliste (sulla falsariga di Derrida), quello della lingua, non pi quello dell'autore (il genio del De Sanctis). La figura dell'autore era stata posta in causa dalle poetiche modernistiche. Era stato Mallarm a parlare di sparizione dell'autore e di iniziativa della lingua. E in un'estetica linguistica la soggettivit cessa di essere trascendentale. Essa non pi il principio dell'opera. L'a priori diventa la lingua. E la lingua non qualcosa che si inventa, ma qualcosa che ci precede e preesiste. Essa la passivit che si eredita. Non una produzione del soggetto, ma una condizione del soggetto. La rottura con la posizione romantica, quale era stata quella del De Sanctis e della grande estetica romantica, e che aveva avuto ancora una sistemazione nella filosofia del Croce, evidente. E la negazione o la distruzione dell'io che tante poetiche (e come si sa non solo poetiche) novecentesche proclamano trovano una giustificazione entro questo nuovo contesto teorico. Il che non significa che l'autore o l'opera, come produzione di un autore, perdano importanza. Significa invece che autore e opera subiscono una dislocazione fondamentale: del tipo di quella, volendo avanzare cautamente un paragone, che si realizza nella formazione del motto di spirito. Come nel motto di spirito studiato da Freud il motto costituisce una sorpresa per chi lo ha elaborato, e dipende spesso dal gioco dei significanti (che variano da lingua a lingua), cos gli artisti non sanno quello che hanno da dire prima di averlo detto. L'opera giunge come una sorpresa per l'artista come per il lettore. Gi il De Sanctis invero aveva distinto tra mondo intenzionale e mondo effettuale delle opere. Il genio romantico opera appunto inconsciamente. E questo gi in Kant. Ma per mondo effettuale ora s'intende un mondo aperto dalla lingua, come fatto stratificato e storico, prima che dal soggetto, che una sua formazione: e cio un mondo possibile solo nel suo orizzonte. Ed una differenza capitale. Resta tuttavia il fatto che tutto viene messo in discussione nel passaggio dalle poetiche romantiche a quelle modernistiche tranne la centralit della critica. Ed questo un punto di convergenza non secondario. Il contesto teorico cambia, ma resta problematico. invece la critica della critica che detta a Compagnon il titolo del suo libro.
La critica della critica muove da una posizione di ragionato scetticismo e porta a un recupero, o comunque a una riabilitazione, del senso comune (del gusto del pubblico)..Ma se dovessimo definire un senso comune, diremmo che esso una formazione storica che ha dimenticato di esserlo, e non ha pi bisogno di interrogarsi sulla propria costituzione. Il senso comune estetico ha risposte che precedono le domande. Ecco alcuni clichs a tutti familiari. L'arte un prodotto immaginativo o fantastico. un fatto del soggetto (del sentimento). A differenza degli altri saperi non richiede mediazioni concettuali, si rivolge all'animo disinteressato, appresa immediatamente, ed a tutti accessibile. Ognuna di queste proposizioni ha una storia. Esse datano dall'origine dell'estetica. facile riconoscere in esse un'eco della concezione moderna della libert dell'arte. Una libert da assicurare contro i vincoli etici ed estetici che non erano pi giustificati in quella che era avviata ad essere la societ del mercato. E furono i valori di spontaneit, naturalezza, sincerit, immediatezza del gusto a sostituirli. Per altro - ripetiamo - si tratt di un fenomeno straordinariamente ricco. Kant - ricordiamo - che per primo teorizza, in ambito filosofico, l'arte come attivit creativa, produttiva e non riproduttiva o mimetica. Con Kant l'artista diviene colui che non obbedisce al gusto, ma regola del gusto; non riceve regole, ma le pone. E si tratta di regole che, ancora kantianamente, non possono essere definite e insegnate, ma solo offerte come esempio nell'opera singolare e irripetibile (concezione esemplaristica dell'arte). L'estetica, in altre parole, aveva segnato un cambiamento di mondo e sostenuto un nuovo corso delle forme poetiche, fornendo un nuovo vocabolario teorico, che si poi venuto diffondendo e, come accade, fino a ridursi in formule svuotate di senso (o ricevute in senso psicologistico).
Ebbene questo nuovo senso comune (impensabile prima della svolta romantica), che oggi, non solo da parte di Compagnon, si riprende in considerazione, attesta dell'esigenza di immettere l'arte nella circolazione sociale. E per questo merita di essere ripreso in considerazione. Ma per un altro verso risulta fatto di frantumi di teorie che non sono pi pensate e che risparmiano dal ripensarle. Ad esso appartengono appunto concetti alla loro origine filosofici, di alto tenore teorico, ma oramai depotenziati. E possiamo comprendere le ragioni del loro riuso. Oggi essi servono a riempire dei vuoti teorici e di poetica. C' oggi una fallacy che potremmo dire scientista, che si fa forte dei criteri di verit delle scienze e squalifica ogni altro criterio di giudizio. Senonch una verit di questo tipo adeguata agli oggetti positivi, non agli oggetti storici. E le opere d'arte sono oggetti storici. Se consideriamo la teoria della letteratura alla stregua delle scienze, le sue affermazioni assomigliano alle illusioni metafisiche di cui parlava Kant. Ogni affermazione d luogo a una controaffermazione che la invalida. E ci si imbatte in antinomie. Le antinomie che denuncia Compagnon, affascinato dalla filosofia analitica (o empiristico-analitica). Ma qui l'oggetto non metafisico o speculativo, ma un oggetto concreto, che abbiamo sotto gli occhi e dobbiamo valutare. E a seguire modelli analitici di spiegazione non sembra possibile giungere a stabilire un criterio vincolante di giudizio estetico. Quale prova potremmo esibire della validit di un'opera? Non ci resta che affidarci alla nozione di gusto, magari richiamandoci all'autorit di Kant, ma per concludere in senso relativistico. Ci sono - si dice - tanti punti di vista sul testo, ma non si attinge mai la verit - una verit positivamente vincolante - del testo. E ripetiamo che individuum est ineffabile. Diciamo che tutti i giudizi sono in linea di principio legittimi, o comunque - secondo un concetto che ha avuto l'importanza che ha avuto nella sua sede propria - non falsificabili. Non essendo possibile un criterio positivo di valutazione delle valutazioni, si squalifica il giudizio di valore. E si sacrifica a un modello standard di verit il proprio oggetto, che infatti subisce una riduzione edonistica. L'oggetto diventa, come si dice, culinario. Il piacere estetico non sarebbe categorialmente diverso, per riprendere l'esempio di Kant, dal piacere del vino delle Canarie, che infatti non sempre e non a tutti piace. E non si potrebbe essere pi lontani da Kant, che fondava modernamente l'estetica sulla base della soggettivit, ma non rinunciava affatto all'universalit, cio a una razionalit, del giudizio estetico.
Bisogner allora cambiare orizzonte teorico per uscire dall'impasse. Piuttosto che al modello scientifico, converr riferire le teorie della letteratura alle poetiche che sottendono le opere. Una poetica, nel senso in cui intesa da Luciano Anceschi, si basa su una decisione e una scelta. E dietro una teoria della letteratura c' un programma di poetica e di critica. Le poetiche sono plurali, tra loro in conflitto, e niente affatto unificabili. E le teorie le riprendono nel loro discorso. E sarebbe sbagliato parlare di relativismo in senso empiristico. Per gli oggetti storici vale la ragione dialettica, non quella logico-formale. Ma - e qui il problema risorge - su quale base pu essere fondata una universalit del gusto? Diciamo subito che il criterio dell'esperienza, la pratica dell'arte (nel senso della produzione o della ricezione). Quella pratica che portava per esempio un artigiano a sviluppare un'eccezionale sensibilit per i propri materiali, senza propriamente averne una scienza. O potremmo pensare a un ascolto cos raffinato da distinguere e riconoscere uno Stradivari - l'esempio di Adorno - che solo pochissimi possiedono (ma che ognuno potrebbe in linea teorica acquisire). Nessuno in questi casi parlerebbe di apprezzamenti variabili e arbitrari. Lo stesso pu valere per gli oggetti d'arte. Tanto pi che gli artisti restano artigiani - e sono forse le uniche figure di artigiani che resistono e sopravvivono nel mondo della tecnica - anche se il loro medium magari un computer. E qui si potrebbe citare Leopardi ed il suo concetto di imitazione. Ma gi Aristotele aveva detto che gli uomini imparano imitando. Dire che non ci sono criteri assoluti dell'arte, equivale a dire che non ci sono criteri dell'arte indipendenti dall'esercizio (di produttori o consumatori) dell'arte. Ma questo non vuol dire che de gustibus non est disputandum, che non sia possibile intendersi in fatto d'arte, e giungere a giudizi oggettivamente fondati. Solo che la prova non viene per via deduttiva, n per via di verifica empirica, come accade invece nei protocolli delle scienze. La prova non meno vincolante, ma essa fondata sull'esperienza dei testi.
Bisogna avere, in altre parole, frequentato l'oggetto-letteratura, per discorrerne razionalmente, cio pubblicamente. Lotman direbbe che si tratterebbe di un apprendimento basato su esempi e non su regole, di una conoscenza testuale (non codificata) e non grammaticale (codificata). il modo in cui i bambini apprendono la lingua materna, ed in cui tutti pragmaticamente continuiamo a fare esperienza del mondo. La conoscenza non passa qui attraverso un metodo, l'osservanza di una serie di procedure di verifica o di falsificabilit, ma attraverso l'imitazione. Scriveva appunto Leopardi che occorre un interesse per l'arte per apprezzare i buoni libri. Perch - soggiungeva - certi diletti, e non sono pochi, hanno bisogno di un sensorio formatovi espressamente, e non innato; di una capacit di sentirli acquisita. A chi non l'ha, non sono diletti in nessun modo (Zib. 4271). la lunga consuetudine con l'oggetto che lo fa riconoscere e valutare. Le procedure analitiche di conoscenza non possono essere trascurate, ma non sono adeguate all'oggetto. E qui cade opportuno un richiamo alla fenomenologia. Husserl distingueva tra scienze rigorose, e scienze esatte. E definiva la fenomenologia una scienza descrittiva, e non deduttiva. Le scienze rigorose descrivono strettamente l'oggetto, ma senza pretendere di esaurirne gli aspetti. La descrizione condotta con il massimo rigore non pu chiudersi perch non lavora su elementi finiti. L'oggetto descritto mantiene un alone di indeterminatezza. Le scienze rigorose sono scienze aperte. Le scienze esatte al contrario operano su quantit finite, e possono quindi perfettamente determinare il proprio oggetto, secondo un principio di completezza. Il loro linguaggio la matematica. E nella matematica tutto ci che vago o indeterminato o assorbito e risolto nel calcolo, o non ha diritto di esistenza. Ora una teoria letteraria una teoria fenomenologica, non esatta. Un tempo si discuteva sulle due culture. E si discuteva sulla loro unificabilit, cio sulla praticabilit di un'enciclopedia dei saperi. Le culture in verit non sono due. Ci sono tante culture quante sono emerse nel corso della storia, ognuna delle quali con una sua specificit. Mentre non c' un metalinguaggio che tutte le unifichi. E possiamo conoscerle e valutarle solo in quanto filologi. Solo se ci si aprono i segreti delle loro lingue. C' insomma un modo di intendere le lingue della cultura, anche le pi lontane da noi. Intenderle infatti non vuol dire misurarle alla stregua di una lingua delle lingue (che non c'). E tanto meno vuol dire farle nostre. Vuol dire che sono comunicabili (che hanno una razionalit interna). E in questo senso ogni lingua della cultura in linea di principio comunicabile. Non quindi solo la lingua della scienza universale, e non ad essa dobbiamo riferire ogni altra lingua, ma qualunque lingua lo , o pu diventarlo, a patto che sia appresa. Il vantaggio delle scienze solo un indiscutibile vantaggio storico: la lingua della scienza l'unica lingua, ed anche quella unicamente moderna, e dunque per eccellenza moderna, che la nostra civilt non pu permettersi di trascurare o di ignorare. E nello stesso tempo ha un limite: essa consente di parlare solo di ci che traducibile in misura, cio in rapporto numerico. Il suo limite - e la sua forza - appunto quello di essere esatta.
Le teorie hanno indubbiamente dei limiti. Sono i limiti a costituirle. Ed vero che non esiste una linguisticit pura, una pura logica dei significanti. Lingua e mondo sono in rapporto di implicazione reciproca. Non sono entit a s stanti, che poi entrano in contatto l'una con l'altra. La lingua non un mezzo per comunicare tra altri mezzi di comunicazione, n il mondo un oggetto del comunicare. C' una lingua perch c' un mondo, e c' un mondo perch c' una lingua. L'uno non si d senza l'altra. La relazione viene logicamente prima dei due termini. La lingua trascendente, rivolta verso il mondo, non si risolve mai in autoreferenzialit o immanenza. Ma dietro l'enfasi sul principio di immanenza dei testi, in tante teorie modernistiche, c' una poetica; c' quell'intenzione critica verso il testo sociale che informa le poetiche di tanti artisti e critici del Novecento (tra i quali appunto Klee e Barthes). Teorie e poetiche invero animano progetti, e perdono vitalit quando si grammaticalizzano o diventano sapere codificato. E viene allora il momento di un cambiamento. Ci che si fatto non soddisfa pi, e occorrono nuove invenzioni per restituirgli vitalit. ( l'opera nuova che fa intendere l'opera vecchia). Ma i limiti di una teoria si scorgono a partire da un'altra teoria. E non si possono invece far proprie esigenze che riportano al di qua della teoria, perch al di qua della teoria si trovano solo altre teorie degradate. Le quali interesseranno senz'altro una storia sociale del gusto, e potranno portare nuovi angoli visuali e nuovi elementi interpretativi. C' infatti una sociologia della ricezione che ha qualcosa da dirci, e dobbiamo tenerne conto. La critica per altro interessata alla forza conoscitiva delle opere. E per questo non pu fare a meno di criteri di valore. Essa innanzitutto valutativa. Tutt'al contrario della critica della critica che lascia cadere (come non scientifica) proprio la questione dei criteri di valore. Per cui da una parte arte diventa ci che il pubblico ratifica come tale (una ricezione competente essendo richiesta solo dai saperi tecnoscientifici). E dall'altra parte, si considera 'seria' solo una filologia dissociata dalla critica. Un poco come gi era accaduto negli anni del positivismo. Si ricordi il discredito in cui fu tenuto il De Sanctis. In nome di una scienza storica fu liquidata la critica. Il positivismo risolveva l'analisi del testo in una ricerca delle fonti (ed ebbe buon gioco il Croce a rivolgersi contro di esso). La critica era congedata come non scientifica, non esatta, non verificabile. Ristabilito il testo critico, e riportatolo alla sua epoca, il compito era esaurito. Non era necessario aggiungere altro. O qualunque altra aggiunta, che non poteva mancare, doveva considerarsi soggettiva, impressionistica, insomma non degna di scienza. E tutt'al pi affare di dilettanti, artisti e giornalisti. La differenza rispetto a ieri che proprio questa aggiunta riceve oggi attenzione. La tendenza attuale si preoccupa dell'uso o della utilizzazione sociale dell'arte, della sua ricezione, e solo secondariamente si pone il problema della sua produttivit, cio della sua capacit di aprire nuovi mondi, nuovi orizzonti di conoscenza. E non sorprende allora che il consumatore prenda il posto del produttore. Mentre, come negli anni della scuola storica, torna ad esser dubbia la funzione della critica, cio di un ascolto al livello delle opere (condotto da un altro punto).
Ma qual il sapere del critico? Torniamo ancora su questo argomento. Un critico
-riassumendo - ha una conoscenza dei propri oggetti per la consuetudine che ha
con essi, non perch ne abbia scienza. E in questo - desanctisianamente -
vicino all'artista. Egli ha acquisito una capacit di ascolto, di decifrazione,
di lettura, ma non ha un metodo che gli appartenga in proprio. I metodi che usa
e di cui non pu fare a meno gli vengono da altre discipline, e non solo dalla
teoria della letteratura. Dove il metodo prescinde - cartesiananente - da ogni
sapere che non sia esso stesso a definire, la critica vive della memoria del sapere
(della memoria dei testi). L'assenza di un metodo specifico il correlativo
del rischio del giudicare. Ma c' un legame non estrinseco tra l'opera e il critico,
tra una disposizione alla lettura e il testo offerto alla lettura. Il critico
risponde ai libri ed posto in essere dai libri. L'opera lo reclama perch
attraverso di lui che essa si afferma. E ogni nuovo orizzonte storico richiede
i suoi giudizi. E si capisce che i giudizi siano sempre parziali, perch gli orizzonti
storici cambiano, e negli orizzonti storici cambiano gli stessi testi. Ma nella
parzialit si esprime - per cos dire - la lotta della verit. Una verit sempre
da costituire, che si mescola con il non sapere, e sorge da esso, senza mai interamente
dissiparlo, restando sempre mescolata a un non sapere, a una non verit. (La non
verit parte della verit, un suo aspetto) .
La parola, creativa o critica, non insomma mai adempiuta. Sta in un orizzonte storico. Ma l'orizzonte rimanda indefinitamente ad orizzonti altri e pi lontani, senza che ve ne sia uno, se non tolemaicamente, che li racchiuda tutti. Ogni lettura rimanda ad un'altra lettura, ognuna delle quali ha un indice storico-temporale. C' un breve racconto di Kafka che pu essere un'allegoria di questo statuto della verit. Il testo ha ricevuto il titolo Poseidone. E racconta del dio che presiede al governo del mare, il quale vorrebbe essere sollevato da un incarico cos gravoso. Ma nella burocrazia olimpica non c'era nessun altro ufficio che potesse essere assegnato a un dio del suo grado. Cos Poseidone obbligato a passare le sue giornate assorto nei conti e nei calcoli infiniti che richiede l'amministrazione delle acque. E non trova tempo per dare uno sguardo al mare. Solo di tanto in tanto, nei suoi viaggi all'Olimpo, gli dato di gettare su di esso uno sguardo di sfuggita. E questo il suo cruccio. A confortarlo solo l'attesa di poterlo finalmente percorrere. Soleva dire che per farlo aspettava la fine del mondo; allora avrebbe trovato un momento di quiete in cui, nell'imminenza della fine, dopo aver riscontrato l'ultimo conto, avrebbe potuto fare in fretta un viaggetto circolare. In forma enigmatica e ironica Kafka ci dice che la verit consiste in un compito infinito. E non distante dal Benjamin che vedeva nella reine Sprache, nella lingua della verit, il convergere di tutte le lingue e di tutte le prospettive storiche. Ma, in maniera non meno enigmatica, dopo e al di l della storia. (Poseidone che non percorrer mai le acque, ha nell'attesa il proprio adempimento).
|
|